giovedì 29 dicembre 2011

Ibridazioni e incursioni tra le lingue: inglese (cambiamenti inevitabili) e italiano (cambiamenti da evitare)

di Francesca Desiderio

L’inglese, lingua della comunicazione internazionale, è da sempre vittima di un processo di ibridazione, influenzata soprattutto da lingue neolatine e indigene delle ex colonie britanniche d’America, Africa e Asia.
Anche l'italiano, come tutte le lingue, assorbe continuamente dall'esterno, ma spesso a scapito della propria identità, soprattutto quando la fonte dei neologismi e dei nuovi significati è l'inglese.

L'inglese: un po’ di storia
L’anglosassone subì l’influenza del latino, giunto con i missionari cristiani in Britannia alla fine del VI secolo d.C. e presto assorbito come lingua della Chiesa e della cultura. Con l’invasione dei Normanni nell’XI secolo, l’inglese antico cominciò a convivere con il francese, la lingua di corte e dei ceti più alti della società. Sul fronte della grammatica e della sintassi, dal secolo XII al secolo XV l’inglese si allontanò dalle lingue germaniche con la perdita delle forme flesse, le desinenze, il genere maschile e femminile, e con una nuova impostazione della frase secondo il modello Soggetto-Verbo-Oggetto (mentre il tedesco conserva ancora oggi l’ordine Soggetto-Oggetto-Verbo). Nella cosiddetta Golden Age (o età elisabettiana, in cui fiorisce il Rinascimento inglese), a cavallo tra i secoli XVI-XVII, l’inglese acquisì il greco, ancora il latino e l’italiano quale lingua del teatro, della letteratura e della musica. Tempo dopo, cominciarono a fare il loro ingresso anche parole di lingue indigene americane: kayak (dall’Alaska), igloo (dagli Inuit del Canada). Con l’espansione coloniale (dal secolo XVIII al secolo XX), nel vocabolario dell’inglese moderno entrarono parole come boomerang (dall’aborigeno australiano), bungalow e khaki (dall’indiano), safari (dallo swahili parlato in Africa orientale) ecc. esportati poi anche in altre lingue, come l’italiano.
Se nel XVIII secolo il francese aveva rimpiazzato il latino nella comunicazione scientifica e diplomatica internazionale, nel XX secolo, grazie alla sua espansione mondiale, l’inglese è diventato la nuova lingua franca.

L’inglese subirà un imbarbarimento?
Oggi, si sa, il lessico inglese è influenzato sempre più dai traguardi tecnologici, soprattutto informatici, e dal primato economico degli Stati Uniti nel mondo (almeno fino alla crisi di inizio millennio); per questo l’ortografia americana è preferita a quella inglese (color, center e neighbor al posto di colour, centre e neighbour, per esempio). Tuttavia, quello che fa cambiare l’inglese oggi, e non tanto dal punto di vista lessicale quanto soprattutto da quello sintattico, è la sua stessa diffusione, il fatto che sia parlato ovunque e da chiunque nel mondo: l’inglese “internazionale”, quello parlato dai non-nativi, non aderisce a tutti i canoni del perfetto British English: all’estero può capitare di sentire domande prive degli ausiliari do/does o formulate come fossero affermazioni, con la sola intonazione della voce, oppure con le question tags o same-way questions (il verbo ausiliare ripetuto alla fine della frase e seguito dal soggetto della frase: they join us, don’t they?so you’re going to marry, are you?); l’ora non si legge più come insegnatoci a scuola, con past e to, ma leggendo i numeri in successione (a quarter to five è per tutti four fourty-five); le varie sfumature tra i tempi verbali si perdono nel momento in cui le forme semplici del presente, del passato o del futuro rimpiazzano le forme perfette o progressive (they know each other for years al posto di they have known each other for years).
Per l’inglese, quindi, il vantaggio di essere parlato in tutto il mondo ha come contraltare lo svantaggio di essere preda di modifiche e incursioni. Può darsi che con la maggiore frequenza d’uso certe imprecisioni prima o poi si diffonderanno nell’inglese nativo, sino a modificarlo, favorite anche dalle nuove tecnologie (cellulari e computer) che inducono a semplificare la comunicazione.

L’italiano imbarbarito
L’inglese influisce a sua volta sulle altre lingue, soprattutto perché lo sviluppo scientifico-tecnologico e i neologismi necessari a esprimerlo sono figli di un mondo dove si parla inglese, così come il lessico musicale è in gran parte figlio della cultura italiana. Ma se alcuni popoli si sforzano di salvaguardare la propria identità linguistica traducendo tutto (i francesi usano matériel e logiciel al posto di hardware e software), ce ne sono altri che assorbono tutto, senza cognizione di causa e senza discernere, come gli italiani.
Non mi riferisco tanto a neologismi pseudo-informatici eclatanti (forwardare, chattare, bannare ecc.), quasi inevitabili, né alle parole che usiamo quotidianamente nella versione inglese (ticket, slide, magazine), nonostante in italiano esistano i corrispettivi. C’è un processo più subdolo e pericoloso che fa perdere all’italiano la propria identità, e cioè le traduzioni errate – o di comodo - di termini ed espressioni inglesi. Prendiamo per esempio to support, state of the art, to approach, to abuse, alarmed, to schedule. In italiano si sono diffusi usi mai visti prima: “supportare” con il significato di sostenere moralmente, aiutare, avallare; “stato dell’arte” con il significato di avanzamento di un lavoro o una conoscenza, avanguardia; “approcciare” con il significato di avvicinare, tentare un approccio; “abusare” in forma passiva o con il significato di “maltrattare” (il bambino è stato abusato, una donna abusata) quando per le regole della nostra grammatica abusare è seguito da “di + sostantivo” (abusare di alcol) e “abusato” vuol dire logoro, troppo usato; “allarmato” con il significato di “essere munito di allarme” (per esempio: il bancomat allarmato), mentre in italiano significa “spaventato”, “messo in allarme”; “schedulare” con il significato di “programmare”.
E poi, usi sempre più frequenti di: “esaustivo” (dall’inglese exhaustive), quando in italiano l’uso ha sempre favorito “esauriente”; il sostantivo plurale “nutrienti” (da nutrients), che però in italiano è un participio presente con valore di aggettivo, per quanto oggi sia usato al posto di “elementi nutritivi”; “processare” un’informazione (da to process), quando nell’italiano corretto si dice “elaborare” un dato o un’informazione; “realizzare” (da to realize) usato impropriamente con il significato di “rendersi conto”.
Ancora, nel giornalismo televisivo e della carta stampata il complemento di specificazione plurale determina l’accordo del verbo nonostante il soggetto sia singolare: “la maggior parte degli intervistati hanno risposto”; “il 70% delle persone sono soddisfatte”, come in inglese (mentre in italiano corretto si dice “la maggior parte delle persone ha risposto”, “il 70% delle persone è soddisfatta”).
Molti italiani ricalcano espressioni inglesi credendolo necessario per adeguarsi ai tempi, senza sapere che nella nostra lingua esistono già espressioni adeguate a tradurli. L’adozione è spesso frutto della sola ignoranza, che conferisce dignità a parole o espressioni mal tradotte, non di ragionevolezza. Sia chiaro, i cambiamenti non si possono evitare, ci saranno in ogni tempo e in ogni lingua. Tuttavia, potevamo risparmiarci questi e molti altri casi, inesistenti fino a 15-20 anni fa, promuovendo traduzioni più competenti, bocciando giornalisti poco preparati e non avallando neologismi come quelli citati attraverso la loro pubblicazione sui nuovi dizionari.

Highlands scozzesi

di Francesca Desiderio

Se, lasciando dietro di te gli ultimi agglomerati urbani attorno a Inverness, seguirai la motorway che si trasforma in un lungo ponte panoramico tra scenari continentali e terre nordiche, comincerai a sentir pulsare il cuore delle Highlands scozzesi.



Farai tappa a Dornoch, sabbia delle spiagge selvagge e cielo dai colori spenti e minacciosi di un deserto sconfinato di freddo, e ti inoltrerai nelle loro antiche terre oggi disabitate. Profili morbidi, a perdita d’occhio, ricoperti di un verde compatto rotto qua e là da rettangoli di pietre, tutto quel che resta del suo popolo, e piccoli laghi come fossero cave. La strada si restringerà e si farà più acciottolata, passing places ti permetteranno di non temere l’incrocio con altre macchine, episodio assai raro. La strada che sale verso nord non finirà mai, l’auto rallenterà la sua corsa su quella difficile strada e ti chiederai quale confine sperduto di terra stai mai raggiungendo; avrai timore di quell’ignoto per qualche attimo, perché segnali non ce ne saranno, né anima umana, né casa ad alleviare quella solitudine. Finché poche svolte alla tua direzione ti condurranno dove finisce la terra e comincia il mare.
In quegli ultimi lembi collinosi, scavati da un mare freddo che ne penetra per centinaia di metri le alture, vedrai i primi fiordi. E ti dovrai fermare. C’è una bellezza che non ti aspetti, lassù, capace di calamitarti e ipnotizzarti. Mi sono fermata dove la strada mi mostrava Loch Eriboll, senza più respirare davanti al luccichìo della superficie del mare calmo come un lago, stretto tra due lunghe braccia di alture verdi, che circondava, giù in basso, una penisola verde, unita alla terra da uno stretto corridoio di terra.



Tornato a ripercorrere la strada, raggiungerai Durness. Le pecore che pascolano sulla spiaggia si allontaneranno sorprese dalla presenza di un uomo, e colpito dal vento freddo ti avvierai sulla spiaggia ampia, dove roccioni neri alti un paio di metri sono lasciati a secco dalla marea bassa. La luce del sole, nell’assenza di nuvole, renderà il mare smeraldino prima del suo blu abissale, che volge dritto verso il Polo Nord. Quello che dalla strada ti parrà adeguato alle tue proporzioni fisiche, ti avvolgerà con la sua potenza, e ti accorgerai di essere polvere. Parteciperai a tanto splendore e te ne lascerai schiacciare, lo respirerai, lo abbraccerai solo con gli occhi perché ti resti impresso, per non lasciarlo lassù, dimenticato.
Il giorno dopo, sotto nuvoloni grigiastri, il ricordo dei colori marini ti sembrerà un fugace regalo del sole, una fortunata coincidenza nel breve spazio della tua visita, in questo luogo senza tempo.

mercoledì 26 ottobre 2011

The Rugged Road (Il viaggio accidentato)

di Francesca Desiderio



Titolo: The Rugged Road (Il viaggio accidentato)
Autrice: Theresa Wallach, a cura di Barry M. Jones
Editore: Panther Publishing Ltd
Anno di pubblicazione: 2011 (seconda edizione)
Formato: cm 15,5x23,5 brossura
Pagine: 175
Lingua: inglese


Sul finire del 1934, due donne inglesi esperte di ciclomotori hanno l’idea di raggiungere il Sudafrica in motocicletta, e così, dopo aver trovato sponsorizzazioni e aver informato le autorità, partono da Londra in sidecar per attraversare l’Africa e raggiungere Città del Capo. Le due sono messe in guardia da chiunque incontrino nel lungo viaggio, in Europa e in Africa stessa. Il continente africano è colonia europea, la cartografia di alcuni suoi territori è ancora incompleta, imperversano malaria ed epidemie e le vie del deserto e dell’Africa nera sono ancora scarsamente battute. Inoltre, due donne sole, per di più a bordo di un mezzo a due ruote, di rado si cimentano in imprese sportive ed esplorative insieme.
Eppure, Theresa Wallach e Florence Blenkiron raggiungono Città del Capo nel luglio 1935, dopo 9 mesi e 14 mila miglia di viaggio nel deserto ostile, nell’umida giungla, nella terra dei leoni e nelle pericolose savane, dopo guasti al sidecar e difficoltà nel riconoscere i tracciati, ma sempre benvolute e accolte in cittadine, avamposti coloniali, missioni religiose e villaggi di nativi.
Il libro è il resoconto scritto da Theresa Wallach, che dedica spazio alla descrizione dell’avventura ma anche dei luoghi e delle popolazioni incontrate, dei guasti alla motocicletta e dei sentimenti provati. La narrazione non indulge nello sconforto che spesso deve aver complicato l'impresa, ma non si abbandona nemmeno al vanto, all’ostentazione del coraggio. Mette in luce il grande senso pratico delle due donne, capaci di metter mano al motore e alle parti meccaniche del mezzo (per esempio nel deserto, dove in caso di bisogno possono confidare solo nel contratto di recupero con la società algerina di trasporti locali), la curiosità della loro indole vagabonda (che le fa attardare sulla via verso la meta per fermarsi e godere di ospitalità e vita locale), la capacità di sdrammatizzare (a proposito delle scorte di cibo o di uno scontro con l’unica auto incontrata) e la voglia di arrivare a destinazione. Theresa accenna anche al contesto sociale e geo-politico del tempo, quando molte colonie africane si chiamano ancora Tanganica (oggi Tanzania), Rhodesia (oggi Zambia, a settentrione, e Zimbabwe, in meridione), Unione del Sud Africa (oggi Repubblica del Sudafrica), quando le missioni sono ancora l’unica presenza europea nel cuore dell’Africa nera e rade famiglie di inglesi e tedeschi popolano le fattorie dell’Africa orientale, nell’emisfero australe.
Il linguaggio di Theresa è diretto, le descrizioni essenziali. La coraggiosa centaura, nell’occasione anche reporter, non si abbandona a lirismi, limita le descrizioni degli stati d’animo e si concentra sulle ambientazioni e sui rapporti con le persone.
Al termine del libro, il curatore Barry Jones aggiunge due appendici, la prima dedicata al viaggio di ritorno in Inghilterra di Theresa e Florence, e la seconda alle biografie delle due donne, estroversa e intraprendente Theresa quanto chiusa e poco comunicativa Florence, che dopo quell'avventura si divisero senza più ritrovarsi.

Traduzione della quarta di copertina
Da Londra a Città del Capo a bordo di una motocicletta e sidecar della Panther, con un rimorchio. Senza strade tracciate né aiuti, attraverso il Sahara e l’Africa equatoriale, fino al Sudafrica, nel 1935, senza nemmeno un compasso! E'il viaggio in motocicletta più sorprendente che sia mai stato raccontato e una rivelazione per il viaggiatore odierno.
Impavide nonostante l’incontro con nomadi, tempeste di sabbia, calura, pioggia, fiumi da attraversare, guasti e questioni burocratiche, Theresa Wallach e Florence Blenkiron compirono un viaggio che potrebbe benissimo ridurre a pezzi un motore moderno. Da un’oasi all’altra strappando alla Legione straniera francese il permesso di proseguire; improvvisando un traino per il rimorchio rottosi nel deserto; ricostruendo il motore ad Agadez; avvistando gorilla, leoni e serpenti sulla strada; fermandosi in villaggi di nativi e incontrando una straordinaria varietà di persone amichevoli e disponibili. Per non parlare dello scontro in Tanganica (oggi Tanzania) con l’unica auto incrociata dopo giorni.
Il libro è il resoconto della grande avventura di due donne che hanno dovuto anche superare pregiudizi e difficoltà del proprio tempo, nonché i limiti fisici che complicano l’attraversamento del Sahara e dell’intera Africa in tutta la sua lunghezza (7500 miglia). Una lettura d’obbligo per qualunque centauro o appassionato di motori, soprattutto donne. E gli appassionati di viaggi e avventure non trascurino che questo è stato il primo viaggio compiuto attraverso l’Africa in motocicletta, da Nord a Sud del continente. Semplicemente, una storia eccezionale!
Questa seconda edizione è arricchita da fotografie inedite e dettagli sulla vita di Theresa dopo la sua epica avventura.

Kenya. Scorci di natura e società

di Francesca Desiderio

A sud del Paese, all'altezza dell’Equatore, l’essenza dell’Africa selvaggia abita i parchi e le riserve naturali.
I Big Five (elefante, rinoceronte, bufalo, leone e leopardo), le prede più ambite dalla fotocamera del turista, popolano le praterie sconfinate del Masai Mara, collinose, verdi e macchiate da arbusti e acacie, umide e piovose nella stagione di passaggio tra l’inverno e l’estate; oppure l’Amboseli arido e polveroso, a valle del Kilimangiaro, con pozze d’acqua improvvise in cui vivono pitoni e sguazzano ippopotami ed elefanti. Aquile, pellicani, fenicotteri, aironi e giganteschi marabù affollano aree lacustri come il lago Nakuru. Furbi cercopitechi e babbuini urlatori si avvicinano ai lodge e ai campi tendati in cerca di facile cibo. Tutti timidi o abituati ai veicoli che portano persone, pur sempre selvaggi e temibili, aggressivi e meravigliosi. Da ammirare a debita distanza. Veloci nella corsa e nell’istinto, durante il giorno pascolano sparsi e disseminati, quasi stanchi e annoiati. Ogni tanto uno spostamento in massa di gnu e zebre, un leone in corsa. Una famiglia di leoni riposa all’ombra di arbusti. Il ghepardo solitario vigila sul territorio, lo sciacallo e la iena stanno all’erta fiutando scenari di caccia. Al crepuscolo e la sera si alzano le zanzare; la sera, i versi di volatili e di scimmie. Al risveglio, l’ululato delle iene appena fuori dal lodge fa gelare il sangue. E la luce del giorno, una volta dissoltasi l’umidità notturna, rassicura della pace circostante in questo deserto di vita.



Albe e tramonti di cielo fuoco, colline rocciose, terra ferrosa rossa e nera di origine vulcanica e fronde verdi allo Tsavo, dove le urla acute dei babbuini lacerano un silenzio vastissimo. Un leopardo attraversa un sentiero, forse a caccia, ma ha l’aria stanca. In meno di un quarto d’ora il sole tramonta accendendo l’azzurro del cielo sopra l’arancio del sole e il rosso ferro della ferra. Le strade sterrate e polverose si fanno pericolose nel buio che scende veloce. Nell’oscurità, a versi e grida non corrispondono più musi e ci si affretta a ripartire.
Al di fuori dei parchi, la popolazione vive in villaggi sparsi, in abitazioni in lamiera o mattoni o fango lungo le poche strade che collegano le città principali, Nairobi, Mombasa, Nakuru, Malindi. Commerci di prodotti della terra, soprattutto, ovunque si vada. E terra, polvere, animali. Come se si vivesse alla giornata. Campi coltivati interrotti da baobab, da distese desertiche, dove ogni tanto pascolano animali domati da allevatori. Bimbi in divisa e rigorosamente rapati corrono verso bassi edifici in muratura: le scuole. Donne dai colori sgargianti portano pesi sulla testa, uomini in bicicletta si assembrano lungo le strade, dove si susseguono ravvicinati bar, farmacie, officine meccaniche, hotel, tutti uguali e indistinti, tutti come resti di abitazioni, con insegne dipinte sui muri, dove gli spiazzi antistanti non sono che polvere ed escrementi di animali.
Lamu, isola a nord di Mombasa e fuori dalle rotte turistiche più scontate, è l’incontro tra cultura swahili e cultura araba. Il kenioti lo considerano un paradiso. Qui si pesca e si traghettano gli stranieri in visita, non si coltiva e non si alleva. Segni forti di un’occupazione arabo-islamica sono i burqa indossati dalle donne di colore, i vicoletti e le abitazioni coi loro androni come patii e i loro portoni pesanti. Ma la convivenza con i kenioti cristiani è pacifica, a differenza di Mombasa. Si veste all’occidentale o con lunghe tuniche arabe, si venera il Dio cristiano o Allah.



Vecchie case coloniali inglesi si affacciano sulla banchina, dove barche di legno, dall’aspetto precario, sono lasciate alla mercé delle maree. Le poche strade lastricate e le case in fango, sabbia e scheletri di corallo ospitano i ricchi del posto. Poco contano gli scarichi fognari a cielo aperto che corrono ai lati delle stradine strette o gli escrementi di asino. Feci, rifiuti, avanzi di cibo, scarafaggi e terra e si cammina anche a piedi nudi, ma con passo deciso e sguardo fiero. Sorrisi e strette di mano sono allungati ai pochi turisti bianchi, oppure si riserva loro indifferenza, nella preoccupazione per i propri affari. Mercato di frutta, cereali e legumi in compagnia di insetti e sporcizia, nei banchetti di legno e cenci. Stracci, paglia, tanfi e miasmi accentuati dal calore del giorno provocano repulsione. Ma tutto è pacifico. Ti diranno sempre pole pole (con calma) e hakuna matata (non c’è problema), con una cordialità sempre rispettosa, non invadente e mai insistente.
Poco distante, la spiaggia deserta Shela, alle cui spalle sta il paese più ricco, con case di europei benestanti in architettura locale: alte mura dalle linee verticali, nessuna decorazione e bianco brillante dei coralli usati come mattoni. Di fronte, l’isola di Manda, protetta da barriere di mangrovie.
Fieri di questa ricchezza e di questa pace, a Lamu ti serviranno e ti congederanno col sorriso. Ti dispiacerà partire e lasciare bagni scrostati e rubinetti arrugginiti, zanzariere bucate e strette di mano a chiunque te le porga. Lascerai qui la consapevolezza dei problemi concreti della vita, per quanto gli abitanti di Lamu di problemi non ne vedano. I kenioti, gente dignitosa e fiera del proprio Paese.

Da alcune settimane l’arcipelago di Lamu è sconsigliato ai viaggiatori dai Ministeri degli Esteri d’Europa a causa della vicinanza con il confine somalo e delle crescenti incursioni di rapitori somali (si ricordano quelle dell’11 settembre e del 1° ottobre scorsi). La polizia keniota si sta mobilitando per cercare di risolvere la situazione, contrastando le milizie dell’insorgenza islamista note come Al Shabaab, che rischiano di compromettere la vita pacifica della zona.

Guerrieri Masai

di Francesca Desiderio



In Kenya sopravvivono ancora tribù dalle forti tradizioni, abituate a vivere in piccole comunità, in condizioni semi-primitive eppure orgogliose della propria cultura, al riparo dai condizionamenti della civiltà occidentale.
Nel cuore del Masai Mara, la riserva naturale al confine con la Tanzania, vive il popolo che le dà il nome, i Masai, disseminati in piccoli villaggi nelle regioni più isolate e pericolose del Paese. Per difendersi dai leoni e dalle fiere più minacciose, i Masai costruiscono i loro villaggi circolari cingendoli di una fitta staccionata di tronchi e rami. Le case sono disposte attorno a uno spiazzo di terra ed escrementi di bovini. Case di fango essiccato e paglia sopra i tetti, al loro interno una o due stanzine buie dove ristagna il fumo prodotto dal fuoco, e donne sedute in quel buio ad accudire bambini. Vestono acconciandosi addosso foulard rossi o arancioni, a righe o a quadri, per spaventare gli animali selvatici, e indossano sandali ricavati dagli pneumatici abbandonati, ritagliati e cuciti ad arte. Portano collane, collari, bracciali, orecchini e piercing alle orecchie per allargare a dismisura i fori che si praticano.
E’ una fortuna aver incontrato un giovane, come quasi tutti, capace di parlare inglese e illustrarci il loro stile di vita. Il governo ha costruito scuole per incoraggiare l’istruzione; già oggi i Masai vivono a contatto con i kenioti “moderni”, lavorando per il turismo e facendosi portavoce di una cultura diversa sebbene autoctona, sperando in mance da investire nella propria piccola comunità.
Allevano mucche, di cui bevono il latte e il sangue, e ne utilizzano le pelli. Si tramandano una forte divisione dei ruoli: alle donne spetta la cura di casa e figli, la raccolta dell’acqua dalle fonti e di radici di cui cibarsi; agli uomini spetta la guardia al villaggio, la dimostrazione di coraggio all’incontro con un leone minaccioso, quindi la ricompensa del matrimonio in caso di uccisione del grosso felino. Questo spiega l’attributo di “guerrieri” con cui sono conosciuti questi giovani uomini, esili ed alti, che si aggirano cingendo sempre bastoni di legno, da bravi pastori ed esperti combattenti.
I matrimoni sono combinati o comunque decisi dall’uomo, che può scegliere la poligamia e introdurre nella propria comunità una donna di una tribù vicina. Serve però un buon numero di mucche per barattare la prescelta. Tante più mucche e figli si possiedono, tanto più si sale nella scala sociale. Per dimostrare la propria prestanza fisica gli uomini si esercitano nel salto da fermi e accolgono i visitatori con una danza fatta di salti, urla e versi che ritmano i movimenti; la donna è invece accolta tra le altre con un canto e una danza composta di pochi passi e battiti di mano.
I Masai producono oggetti con perline e fili di metallo, incidono il legno e vendono i loro prodotti ai turisti per acquistare abiti e materiale per creare nuovi manufatti. L’ammirazione per un popolo capace di trovare mezzi di sussistenza in modo autonomo si smorza quando mi spiegano le pratiche di “passaggio” alla vita adulta: circoncisione per il giovane diciottenne, con pubblico disprezzo, disonore e allontanamento dalla comunità in caso di pianto, e infibulazione per le bambine, con conseguente possibilità di essere prese in moglie… Il governo keniota sta tentando di sensibilizzare i Masai affinché abbandonino questa barbara tradizione, ma mi spiegano che se le donne non “maturano” in questo modo non saranno mai prese in moglie. Labile confine tra tradizione e ignoranza…
Mi mostrano la pratica di accensione del fuoco, strofinando due legnetti; mi parlano della loro divinità, Engai, che governa gli eventi naturali. Non offrono cibo o bevande; hanno così poco per sé, data la stagione secca in cui li visito, da non poterne condividere.
Questi sono i Masai, isolati dal resto del mondo eppure, all’occorrenza, integrati e consapevoli della propria diversità, ma mai per questo, ovunque ne abbia rincontrati in Kenya – nei paesi o nei villaggi periferici – a disagio tra gli altri.

venerdì 14 ottobre 2011

Parois de légende

di Alessia Delcré



Titolo: Parois de légende (Pareti leggendarie)
Autori: Stéphanie Bodet e Arnaud Petit
Editore: Glénat, Grenoble
Anno di pubblicazione: 2011
Formato: cm 14x23, brossura
Pagine: 240
Illustrazioni a colori (fotografie e mappe)
Lingua: francese













Il libro presenta vie di arrampicata di varie lunghezze e diversi gradi di difficoltà, disseminate in scenari naturali di incomparabile bellezza. Scalate moderne - attrezzate al massimo dal punto di vista tecnico - si alternano a scalate storiche - da ripercorrere per capire le vicissitudini dei popoli e delle loro terre - e naturalistiche allo stato puro - da cui spiccano le doti dei grandi scalatori.
Nella sezione iniziale, gli autori tracciano rapidamente l'abc dell'arrampicata: i diversi tipi di roccia, il materiale tecnico e personale da portarsi in scalata, i gradi di difficoltà riscontrabili... e ancora come intuire l'itinerario più appropriato, cosa fare in caso di infortunio, come valutare le condizioni meteorologiche ottimali.
Seguono 78 siti di scalata, ramificati spesso in proposte multiple, descritti in maniera schematica ma esaustiva. Per ogni percorso vengono date le coordinate, l'altitudine e il grado di difficoltà. Seguono indicazioni sulla stagione e sugli orari migliori per affrontare la scalata, il punto di partenza e di arrivo, la via per scendere, oltre a qualche curiosità storica. Il tutto in una scheda di rapida lettura, mentre una parte discorsiva illustra il merito di ogni via descritta.
Le immagini, oltre ai dati tecnici, giocano un ruolo importante per ogni scheda: le fotografie sono seducenti per chiunque ami la natura e le alte quote, e le topografie a piena pagina chiare e dettagliate.

Sommario delle scalate
ITALIA
Dolomiti: Cima Grande di Lavaredo, Cima della Madonna, Marmolada, Campanile Basso
Sardegna: Punta Girardili, Gola di su Gorroppu

SVIZZERA
WendenstocK: Pfaffenhuet, Reisend Nollen
Obeland: Eiger
Alpi Bernoises, Grimsel: Eldorado

FRANCIA
Massiccio del Monte Bianco: Aiguille du Midi, Grand Capucin, Tour Verte, Première pointe des Nantillons, Aiguille de Roc, Pilier Rouge de Blaitière, Aiguille du Moine
Oisans: Aiguille Dibona, Tête du Rouget
Dévoluy: Gillardes, Pic de Bure
Verdon: Escalès, Grand Eycharme, Paroi du Duc
Aiglun: Paroi du Giet, Paroi Dérobée
Calanques: Plateau de Castelvieil, Devenson, Grande Candelle
Pirenei: Petite Aiguille d'Ansabère, Grand Pic du Midi d'Ossau
Corsica, Aiguille de Bavella: Punta d'u Corbu

SPAGNA
Ordesa: Tozal del Mallo, Gallinero
Mallos de Riglos: La Visera, El Pison, El Puro
Picos de Europa: Naranjo de Bulnes

MAROCCO
Taghia: Taoujdad, Oujdad, Tadrarate

ALGERIA
Hoggar: Tezoulag sud, Garet El Djenoun, Hoggar, Tesnou

MALI
Hombori: Wanderdu, Kaga Tondo, Suri Tondo

NAMIBIA
Spitzkoppe

MADAGASCAR
Andrigitra: Karambony, Tsaranoro

GIORDANIA
Wadi Rum: Hammad's Done, Barrah Canyon, Nassrani Nord, Djebel Rum

TURCHIA
Dedegöl: Parete centrale, Tour Rouge

CANADA
Squamish: The Chief
Logan Mountains: Fiori di Loto

USA
Fischer Towers: Ancien Art
Canyonlands: Moses Tower
Yosemite: Higher Cathedral Rock, Royal Arches, Half Dome, El Capitan, Washington Column, Fairview Dome, Medlicott Dome

MESSICO
Basaseachic: El Gigante

BRASILE
Rio de Janeiro: Pane di Zucchero, Corcovado
Tres Picos: Pic Maior

CHILI
Torri del Paine: Torre Centrale del Paine

PAKISTAN
Karakoram: Torre di Trango

VENEZUELA
Gran Sabana: Salto Angel

Difficile non farsi contagiare dalla voglia di partire con lo zaino carico di moschettoni e voglia di avventura...



Traduzione della quarta di copertina
Campioni del mondo di scalata nel 1999 e prima nel 1996, Stéphanie Bodet e Arnaud Petit formano da più di 15 anni una cordata nella vita e sulle cime. Scalatori eccezionali, condividono il gusto per i grandi spazi naturali e gli incontri con altre culture, e scalano insieme le pareti di tutto il mondo.
Da questa esperienza fuori dal comune è nata quest'opera, che presenta le pareti più belle, più grandi, più mitiche... quelle che fanno sognare tutti gli scalatori e gli appassionati di paesaggi maestosi.
Alcuni tra questi universi minerali sono famosi: il granito perfetto del Monte Bianco e dello Yosemite, la roccia calcarea liscia del Verdon e del Marocco, i Pani di Zucchero di Rio de Janeiro e delle Dolomiti, le Torri del Paine in Patagonia e del Trango sull'Himalaya... Altri formano sculture di una bellezza incredibile, come gli organi basaltici del Sahara e i gres della Giordania.
Gli autori ci svelano qualche rivelazione, tra cui lo Spitzkoppe in Namibia, El Gigante in Messico e il Dedegöl in Turchia.
Le big walls, questi grandi muri che richiedono a volte diversi giorni di sforzi, si alternano a numerose vie che restano accessibili alla media degli scalatori.
Le foto e le topografie dettagliate (sono descritte più di 100 vie) permettono al lettore di proiettarsi in questo mondo a parte, prima di passare dal sogno alla realtà.

Stéphanie e Arnaud sono arrampicatori professionisti, consulenti tecnico-sportivi e tengono inoltre conferenze in tema.
Stéphanie, laureata in Lettere Moderne, è l'autrice di Salto Angel (edito anche in italiano, n.d.t.), racconto della loro spedizione più importante in Venezuela, punta di diamante anche di questo libro.
Arnaud, laureando in Fisica, è anche lui guida di alta montagna, e fotografo. Le sue riproduzioni sono state pubblicate sulle riviste di tutto il mondo e le sue mappe sono celebri per la loro precisione.

giovedì 8 settembre 2011

Le valli del Bianco

Escursioni sui 2000 in Val Ferret e Val Veny

di Alessia Delcré

Ai piedi del massiccio del Monte Bianco, nella parte italiana, spiccano due valli dall’interesse turistico e naturalistico notevole: la Val Ferret e la Val Veny. Sono le valli di Courmayeur, perla delle Alpi, cittadina vivace e meta di un consumo elitario. Se Courmayeur resta un sogno residenziale accessibile a pochi eletti, il suo contorno paesaggistico è invece godibile da chiunque ami la montagna e le attività a essa correlate. In ogni stagione è facile lasciarsi coinvolgere dagli sport en plain air, che permettono di vivere la montagna secondo differenti punti di vista.
Geograficamente, queste valli fanno parte della Comunità Montana Valdigne Mont Blanc. Con il termine Valdigne si intende la parte superiore della Valle d’Aosta, che si estende dal comune di La Salle a quello di Courmayeur, inglobando le valli laterali di Ferret, Veny e La Thuile.
Le due valli sono percorse dai due rami della Dora, che confluiscono poco a valle di Entrèves, ultima località della Valle d’Aosta prima del traforo del Monte Bianco.
Sebbene parte della stessa area geografica e naturalistica, la Val Ferret e la Val Veny sono in realtà molto diverse, sia per la loro conformazione, che per le possibilità di accesso e di attività collegate.


La VAL FERRET è caratterizzata da un paesaggio che appaga dolcemente la vista, con un versante orientale molto verde e morbido, percorso da escursionisti anche non troppo allenati. I numerosi rifugi che costellano questo lato della valle permettono di usufruire di viste impagabili sul versante occidentale, più irto e selvaggio. La balconata che percorre in quota la Val Ferret per tutta la sua lunghezza (circa 14 Km) è parte del T.M.B. (vedere nota 1). Lo spettacolo visivo include tutte le cime più alte del massiccio: sfilano da sinistra il Dente del Gigante (4013 m), le Grandes Jorasses (4208 m), l’Aiguille de Leschaux (3759 m), l’Aiguille de Talèfre (3730 m), l’Aiguille de Triolet (3874 m), il Mont Dolent (3819 m).
Lungo il fondo valle, invece, sono presenti piccoli nuclei storici, tradizionalmente non abitati permanentemente ma adibiti a rifugi di pastori. Oggi ben recuperati, rappresentano baite vacanziere e attività di ristoro per turisti. Dal punto di vista naturale, la piana della Val Ferret è caratterizzata da alcuni ambienti lacustri e contornata da boschi. Sono quindi piacevoli anche le passeggiate in piano, che permettono comunque di ammirare uno scenario alpino di rara bellezza. Le attività sportive praticabili con la bella stagione vanno dal trekking, alla bicicletta, alla pesca (la valle è percorsa interamente da un ramo della Dora), al golf, all’arrampicata...
Unica limitazione è l’ingresso con le auto, che in estate è regolamentato, ovvero limitato a un numero (circa 400) oltre al quale la strada viene chiusa e si accede tramite navetta, che offre comunque un buon servizio sia a livello di orari che di confort di viaggio.
La valle è fruibile anche d’inverno, per la pratica dello sci di fondo, mediante una pista tracciata sulla strada.
Come già detto, diversi sono i rifugi e i bivacchi in Val Ferret, qui citati in ordine decrescente di altitudine: Bivacco Ettore Canzio (3810 m), Rifugio Torino (3375 m), Bivacco Mario Jachia (3264 m), Bivacco Giusto Gervasutti al Fréboudze (2835 m), Rifugio Boccalatte (2803 m), Bivacco Cesare Fiorio (2780 m), Rifugio Cesare Dalmazzi al Triolet (2590 m), Bivacco Comino (2430 m), Rifugio Elena (2062 m), Rifugio Walter Bonatti (2025 m), Rifugio Giorgio Bertone (1979 m).

Le escursioni di seguito proposte sono quelle ai rifugi intorno ai 2000 m, praticabili con un minimo di allenamento ma senza difficoltà tecniche. Sono passeggiate fruibili da chiunque voglia approcciarsi a queste montagne con lo spirito leggero dell’escursionista (e non con l’impegno alpinistico), quindi anche da anziani buoni camminatori e famiglie con bambini (trasportati sia in spalla che lasciati camminare da soli - ho provato entrambe le opzioni, garantisco!). Il periodo consigliato è da giugno a settembre.
L’ordine di presentazione delle escursioni segue l’orientamento da sud a nord.



Al Rifugio Bertone (1979 m)
Due sono gli itinerari percorribili per raggiungere il rifugio. Il primo è il più ripido e impegnativo - consigliabile a chi ha un buon fiato e ama “sudarsi la meta”. Parte dalla frazione di Courmayeur chiamata Villair Superiore, in Val Sapin. È contrassegnato come sentiero 42 ed è parte del T.M.B. Il tragitto è interamente ombreggiato in quanto inerpica per i boschi e prevede circa 2 ore di marcia. La vista, da prima assente, si apre man mano che si sale in quota, offrendo agli occhi prima Courmayeur e la sua piana viste dall’alto e poi il massiccio con la sua scenografia di graniti e ghiacci. Scegliendo questo itinerario, ricordarsi che anche la discesa è impegnativa.
L’alternativa, più lunga ma sicuramente più abbordabile, è quella dalla Val Ferret, con partenza dopo Plampincieux (lasciare l’auto al parcheggio 3, dopo il campeggio). Il sentiero è il 31, che sale dapprima un po’ deciso tra pascoli e boschi, per poi proseguire in falso piano riallacciandosi al T.M.B. fino al rifugio.
Il tempo di percorrenza è di circa 2 ore e 30 minuti. Per i golosi, in agosto questo tragitto offre anche la possibilità di fare scorpacciate di mirtilli, fragoline di bosco, ribes e lamponi deliziosi. La vista da questo percorso, ombreggiato solo per brevissimi tratti, è appagante dall’inizio alla fine: una lunga balconata aperta su tutto il massiccio. Quasi al rifugio, una mappa disegnata su un tavolo in legno indica i riferimenti paesaggistici che si scorgono da quella postazione.
Una volta al rifugio, per entrambe le vie di salita, la vista sul Monte Bianco è predominante su qualsiasi altra veduta. S’innalza come un gigante e sembra vicinissimo, quasi a illudere di poterlo da lì raggiungere con facilità. È uno spettacolo molto appagante. Nelle giornate di sereno (il Bianco è spesso nascosto da nuvole, sembra essere molto schivo agli sguardi degli escursionisti...) si scorgono a occhio nudo le particolarità geologiche e i ricchi tratti ghiacciati che lo contraddistinguono.
Dal rifugio si vedono bene anche il dente del Gigante e il gruppo delle Jorasses.
Aggrappato su un promontorio molto interessante, il Bertone è un rifugio privato presso cui si può pranzare e dormire. Come per la maggior parte dei rifugi, è vietato il pranzo al sacco, ma basta spostarsi di pochi passi per poter consumare il proprio pic-nic su piane verdeggianti con vista maestosa sulle cime.



Dal Rifugio Bonatti (2025 m) ad Arminaz Inferiore (2033 m)
Le escursioni in Val Ferret sono molto appaganti perché permettono anche ai non esperti di ammirare tutto il massiccio del Bianco su un percorso a balconata in quota tra i 1500 e i 2000 metri. È il T.M.B., che in Val Ferret corre dal Rifugio Elena a nord fino al Rifugio Bertone a sud.
Per il tratto qui proposto, la partenza a piedi inizia dopo il borgo di Lavachey, verso il fondo della valle. Si percorre dapprima un pezzo su asfalto (il traffico è limitato a poche auto) per prendere poi il sentiero 27, che sale in pineta verso il Rifugio Bonatti. L’ombra allevia la fatica della salita. Prima del rifugio, alla biforcazione prendere a destra proseguendo sempre sul sentiero 27. Su un percorso leggermente ascendente, si passa un alpeggio (con presenza di mucche) e si prosegue fino alle baite diroccate di Arminaz Inferiore. Il panorama è vasto e piacevole. Volendo si potrebbe proseguire ancora in su, sempre su sentiero 29, verso la punta di Séchéron (il vallone verde tagliato dal torrente è molto seducente, ma si allungherebbe di parecchio l’escursione). Da Arminaz inizia la discesa, a tratti ripida e che prevede il guado (facile) di ruscelli che invadono il sentiero nella parte finale. Per chiudere l’anello si continua sempre sul 29 in piano, per percorsi lacustri fino a Lavachey. Il tragitto totale è di circa 3 ore. Questa escursione soddisfa grazie alla varietà degli ambienti che si toccano, passando per tratti di bosco, pendii assolati, zone arbustive con frutti selvatici e aree lacustri.



Per il Rifugio Bonatti (2025 m) fino ad Arpnouva (1769 m)
Il tratto iniziale è lo stesso della precedente escursione, ma in questo caso si sale fino al rifugio. Oltrepassati i boschi, l’ultimo pezzo assolato apre la vista sulle Grandes Jorasses, che si ergono proprio frontalmente. Il rifugio dispone di una grande terrazza con tavoli e panche, su cui è possibile anche fare pic-nic, oppure si può usufruire del ristorante interno (e volendo restare a dormire). I prati attigui e la vastità della zona pianeggiante invitano tutti al relax e al gioco i più piccoli. La vista è anche per questo rifugio molto appagante e vale la pena fermarsi a contemplare, meglio se con l’ausilio di un binocolo, le numerose cime.
Per scendere, si può tornare dallo stesso tragitto dell’andata, oppure allungare su balcona del T.M.B. verso l’estremità superiore della valle. All’ora di salita verso il rifugio, si aggiunge in questo caso un’ora e mezza circa per percorrere la balconata che scende infine ad Arpnouva, un gruppo di baite a 1769 m. Da qui si riguadagna la partenza con navetta o, se si ha ancora voglia di camminare, a piedi su strada asfaltata fino a Lavachey. In totale questa escursione è piuttosto lunga ma come sempre l’esperienza naturalistica appaga in pieno.



Al Rifugio Elena (2062 m)
L’ultimo tratto della Val Ferret è altrettanto suggestivo, grazie alla vista sul Ghiacciaio del Triolet e sul Ghiacciaio di Pré de Bard, che creano uno scenario bianco come contrappunto a pendii dolci e verdeggianti. Questo è l’itinerario per il Rifugio Elena, con sentiero che parte dal gruppo di baite chiamato Fondovalle, raggiungibile solo in navetta, avendo l’obbligo di lasciare l’auto non oltre Lavachey. Quindi, da Fondovalle, due sono le alternative per il rifugio: una strada sterrata carrabile, che sale molto dolcemente, costeggiando il torrente, oppure il sentiero del T.M.B., a mio giudizio molto più interessante, che si inerpica più deciso con un tempo di percorrenza di 1 ora e mezza circa. In entrambi i casi i percorsi sono assolati e con ottima vista.
La terrazza del rifugio è spesso ventosa, ma la vicinanza ai ghiacciai obbliga a un minimo di sosta di contemplazione. Il pic-nic è vietato, mentre ristorante e pernottamento sono disponibili. Il rifugio è anche un buon punto di partenza per percorsi più impegnativi verso il Col du Petit Ferret e il Col du Grand Ferret.
Per scendere, si può prendere la via alternativa non percorsa all’andata.




La VAL VENY, a sud-ovest di Courmayeur, ha un aspetto naturalistico molto diverso dalla Val Ferret: alla dolcezza e mondanità di quest’ultima contrappone scenari molto più aspri e selvaggi. È stata modellata dai ghiacciai del Miage e della Brenva e dal suo fiume, la Dora di Veny, che si congiunge nei pressi di Dolonne con la Dora di Ferret a formare la Dora Baltea.
Situata ai piedi della catena del Monte Bianco, si divide in tre parti: una testata sub-parallela alla catena del Bianco, compresa tra il Col de la Seigne (2512 m) e le pendici inferiori del ghiacciaio del Miage, con un paesaggio lacustre notevole (lago Combal); la parte intermedia (plan Veny), che presenta un tratto di valle di piana prativa attraversato dalla Dora della Val Veny; infine l’ingresso della valle, dominato dal Monte Bianco e dalla parte finale del Ghiacciaio della Brenva (1444 m). Quest’ultimo scende sul versante italiano del massiccio del Monte Bianco al cospetto dell’Aiguille Blanche e dell’Aiguille Noire de Peuterey. Con i suoi 730 ettari di estensione, la Brenva è il quarto ghiacciaio valdostano.
La Val Veny può essere percorsa in auto nei periodi estivi attraverso una strada (circa 16 Km, carrozzabile solo fino a Plan Lognan) che raggiunge La Visaille, mentre nel periodo invernale è chiusa. In estate vige la limitazione giornaliera all’ingresso delle auto nella valle, come per la Val Ferret. Lungo la strada sono localizzati punti di ristoro, alberghi, rifugi e alcuni campeggi.
La valle è punto di partenza della via normale italiana al monte Bianco (via Ratti-Grasselli) attraverso il ghiacciaio del Miage e il Rifugio Francesco Gonella. È dotata di numerosi rifugi e bivacchi, qui nominati in ordine decrescente di altitudine: Bivacco Giuseppe Lampugnani (3860 m), Bivacco Marco Crippa (3850 m), Bivacco Alberico-Borgna alla Fourche (3680 m), Bivacco Piero Craveri (3490 m), Rifugio Quintino Sella (3363 m), Rifugio Durier (3358 m), Rifugio Francesco Gonella (3071 m), Bivacco della Brenva (3060 m), Bivacco Gino Rainetto (3047 m), Bivacco Adolfo Hess (2958 m), Rifugio Monzino (2590 m), Bivacco Lorenzo Borelli-Carlo Pivano (2310 m), Rifugio Elisabetta Soldini Montanaro (2195 m), Rifugio Maison Vieille (1956 m), Rifugio Monte Bianco (1700 m).

Come per la Val Ferret, le escursioni di seguito proposte sono quelle intorno ai 2000 m, da praticarsi in estate. L’ordine di presentazione corrisponde all’orientamento da est verso ovest.



Al Lago delle Marmotte (1950 m)
Detto anche Lago del Breuillat, si trova a nord della lingua meridionale del ghiacciaio del Miage.
La partenza è sulla strada in fondo valle, nei pressi di Châlet del Miage. Da qui una strada carrabile lascia spazio poco più su al sentiero 18 per il lago. Si entra nei boschi, poi si attraversa una pietraia che fiancheggia il torrente del Miage, a tratti da guadare su comodi pietroni. Lasciata sulla destra la biforcazione per il Rifugio Monzino, inizia la parte più suggestiva del sentiero: come equilibristi si cammina sul crinale di una stretta morena che lascia alquanto impressionati. La vista spazia sulle distese circostanti di vecchie frane. La morena è invece una lingua verde che prosegue in salita fino a una conca estesa: è il lago del Miage, spesso a secco d’acqua, per via della scarsa affluenza dei torrenti che scendono dal ghiacciaio. Un pannello esplicativo sulla sponda del lago spiega chi sono e come vivono le marmotte (ma noi non ne avvistiamo nemmeno una).
Il percorso d’andata dura circa 2 ore e mezza. Il rientro viene fatto per la stessa via.
Il tragitto è particolare per la conformazione ambientale, introvabile altrove su queste valli.



Al Lago Blu (1834 m)
Lasciata l’auto in zona Châlet del Miage, si prosegue un pezzo su asfalto fino a imboccare il sentiero 17 sulla destra. Tra pinete e pietraie si sale in un’oretta al Lago Blu, interessante piccolo bacino immerso in una distesa di pini e abeti, che si ergono anche dalle sue acque. La presenza di numerosi girini testimonia la vitalità biologica del sito. Poco più a nord è visibile il Giardino del Miage, così chiamato in quanto unica lingua di vegetazione in mezzo ad aree del ghiacciaio e di pietraia. Il percorso di ritorno è per la stessa via.





Al Lago del Miage (2020 m)
La partenza è la stessa del tragitto verso il Lago Blu, ma in questo caso si prosegue su asfalto molto a lungo, spesso con il vento e comunque senza ombra. Si è intanto raggiunto il Lago di Combal, affascinante distesa lacustre immersa in un contesto di prati e orizzonti da esplorare. In lontananza spicca il Rifugio Elisabetta Soldini. Sulla destra del Lago di Combal parte il sentiero vero e proprio, il 18A, ripido seppur breve, per il Lago del Miage. Lasciato il bar-rifugio Combal alle spalle, si scarpina fino a raggiungere una piana, in quota 2020 m, che lascia senza fiato. Il lago si è formato nel corso del tempo dalla caduta di materiale ghiacciato, che si è sciolto, creando questi bacini che appaiono grigi alla vista, proprio perché di derivazione glaciale. A lato, altri bacini di color turchese intenso sono quelli di formazione torrenziale. Il contrasto cromatico è notevole e suggestivo. Il ghiacciaio del Miage, che arriva con le sue lingue fin sul lago, lascia cadere perpetuamente pezzi di ghiaccio che con tonfi si buttano nelle acque. Il fenomeno era molto più rimarcato nel passato recente, quando non era raro assistere al distacco di enormi pezzi dal ghiacciaio in caduta nel lago; oggi purtroppo il ritiro dei ghiacciai dovuto all’innalzamento climatico ha reso anche questo evento molto più contenuto, e i distacchi sono esigui e poco rumorosi. Ciononostante, il ghiacciaio del Miage resta oggi il più grande ghiacciaio valdostano: si estende per 1100 ettari su una lunghezza di oltre 10 km.
Questa escursione, di bellezza surreale, dura circa 2 ore di andata. Si rientra per la stessa via.



Al Rifugio Elisabetta Soldini (2195 m)
Stessa partenza con auto lasciata in località Châlet del Miage e tragitto a piedi su strada asfaltata fino al Lago di Combal. L’acquitrino viene affiancato per tutta la sua lunghezza dal sentiero 12, per cui si ha la possibilità di esplorare appieno l’ambiente lacustre e di osservare le numerose piante acquatiche che lo popolano. Il percorso prosegue in falso piano tranne che per l’ultimo tratto, in cui arrampica deciso verso il rifugio. Si tratta comunque di un’escursione interamente sotto il sole ed esposta al vento, e la vista di questa strada lunga che non sembra mai aver fine ha il gusto dolce-amaro di un pellegrinaggio in cerca di un’affermazione. Il premio è effettivamente l’arrivo al Rifugio Elisabetta: lo spettacolo a 360° sui ghiacciai e sulle Pyramides Calcaires alle spalle è notevole. Dal punto di vista geologico, le numerose sfumature dei minerali presenti nelle rocce, materia predominante il paesaggio, è già di per sé una scoperta. La vista dal rifugio è a perdita d’occhio: si arriva a vedere l’inizio della valle, a chilometri di distanza.
Il rifugio, come sempre, dispone di ristorante e posti letto. Il tragitto di sola andata dura circa 3 ore. Per rientrare, si può deviare nel primo tratto salendo ancora leggermente per il sentiero 12 (costeggiando le Pyramides Calcaires) per poi riguadagnare il sentiero in discesa, lungo ma facile, verso il punto di partenza.




NOTE:
(1) T.M.B. = Tour du Mont Blanc. È un trekking spettacolare che si snoda intorno al massiccio del Monte Bianco, attraverso i territori italiano, svizzero e francese, e regala, a chi lo percorre, i panorami unici della catena più alta d’Europa: severe pareti rocciose, ghiacciai incombenti, lunghe morene ghiaiose, pascoli e praterie. L’itinerario si sviluppa per quasi 170 km ed è percorribile in circa 10 giorni di cammino; entra in Valle d’Aosta dal col de La Seigne e prosegue nell’alta Val Veny, fino al rifugio Elisabetta, da dove scende al Lago di Combal. Il tracciato sale poi agli alpeggi dell’Arp Vieille, proseguendo con un panoramico saliscendi fino al Lago Chécrouit e al Rifugio Maison Vieille, prima di giungere nel fondovalle, a Dolonne e a Courmayeur. Dal paese il percorso sale al rifugio Bertone, quindi percorre tutta la Val Ferret su un sentiero a mezza costa. pervenendo dapprima al Rifugio Bonatti e poi, proseguendo in direzione della testata della Val Ferret, al Rifugio Elena, per risalire verso il col du Grand Ferret, al confine elvetico. In Svizzera, il tracciato tocca le località di La Fouly e Champex ed entra quindi in Francia dal Col de la Balme; transita nei pressi di Chamonix e Les Houches e valica, infine, il col de la Croix e il col de La Seigne per rientrare in Valle d’Aosta.

mercoledì 24 agosto 2011

Norvegia, nella regione dei fiordi

di Francesca Desiderio


Il Sognerfjiord è attraversato da una vivace luce di inizio estate. Il mare resta intrappolato nel labirinto di montagne verdi di conifere e si coglie appena un cenno di sale nell’aria. Balestrand, gioioso paese sulle sue sponde, è gioiosamente esposto al sole e guarda verso le altre diramazioni del fiordo, smeraldo placido. D’estate il sole non tramonta nelle ore serali e il verso di gabbiani giocosi riempie l’aria. Nella calma di fine giornata, nella tranquillità di questo immobile crepuscolo regna tutta la vita del fiordo, nei grossi fiori colorati, nei tetti spioventi delle casette basse di legno, nel volo degli uccelli, nella vegetazione alpina a pochi metri dal mare... un mare senza onde come non ho mai visto, conficcato nelle insenature nelle montagne come fosse un lago, senza che si agiti il vento e che si respiri salsedine. Tutto intorno è verde, è sorriso. Il sorriso garbato della vita.
Nella regione dei fiordi, dal mare ai ghiacciai il passo è breve. I ghiacciai si estendono già a 1000 metri sopra il livello del mare, e le loro lingue scendono fino a poche centinaia di metri dall’imbocco di un fiordo. Le strade che li raggiungono sono curve, strette, si inerpicano con curve a gomito sulle montagne e sono interrotte dalle tante ramificazioni dei fiordi, che impongono di traghettare l’auto.
Il ghiacciaio Kjenndalsbreen è una lingua del più grande Jostedalsbreen, e scende ripida fino al lago Lovatnet. Ai lati della strada che costeggia il lago, montagne a picco sull’acqua e cascate dalle altezze sorprendenti: punti fermi dei panorami norvegesi. Ai piedi del ghiacciaio dalla pendenza scoraggiante, la valle a U modellata dal tempo, dove domina il verde rassicurante di una vegetazione alpina a due passi dal mare.

Su su per una stradina in salita, stretta, in massima parte sterrata, con margini non protetti, ai lati di un torrente in veloce corsa verso il basso, si raggiunge un’altra spianata verde, una larghissima valle a U che pare un altopiano, dove giacciono poche casette di legno rosso e il fiume azzurro prima che precipiti verso il basso. Alla fine di questa vasta e pacifica piana così grandemente esposta a vento e sole sempre alto, si raggiunge un’altra lingua di ghiaccio, il Bødalsbreen. Il vento sferza a una tale velocità che diventa difficoltoso anche solo scavalcare i roccioni ai suoi piedi.
La cosiddetta “strada delle pietre” sale ripida per tornanti che costeggiano cascate fino a cime innevate, lasciandosi alle spalle un panorama montano a picco sul mare, quindi percorre un altopiano di muschi, chiazze di neve, cime montuose e laghi ghiacciati, appena acquosi sulla superficie. In questo silenzio lunare la temperatura è molto bassa. Il paesaggio e l’aria sono invernali. Raggiungo la cima del monte Dalsnibba, 5km di curve fino a 1470 metri, per ammirare, oltre nebbie sparse e cielo carico di umidità, il fiordo sottostante: il Geiranger. Scenario vertiginoso, inquietante e spettacolare, patrimonio dell’UNESCO, stretto tra monti alti e generosi di acqua e vegetazione. Dal mare, nel cuore del fiordo, serve una breve navigazione per coglierne da vicino la bellezza, il suo sviluppo verticale, il senso di vertigine prodotto dalle pareti sul mare e dalle cascate: le “Sette sorelle”, sette sorgenti di acqua ravvicinate che si tuffano nel mare, e il “Velo della sposa”, acqua gassosa e volatilizzata, polverizzatasi nel suo infrangersi sulla parete di roccia, a formare un sipario di chiffon, appena un velo trasparente, evanescente, dietro cui si scorge la roccia. Sulle pendici delle montagne, vecchie fattorie abbandonate, perse nell’umida solitudine di quelle altezze.

venerdì 19 agosto 2011

Stasi. The Untold Story of the East German Secret Police

di Francesca Desiderio


Titolo: Stasi. The Untold Story of the East German Secret Police (Stasi. La storia mai raccontata della polizia segreta della Germania dell’Est)
Autore: John O. Koehler
Editore: Westview Press, USA
Anno di pubblicazione: 1999
Formato: cm 15,2x22,8 brossura
Pagine: 460 Illustrato
Lingua: inglese


John Koehler, corrispondente della Associated Press a Berlino nel secondo dopoguerra, racconta la storia ignominiosa del Ministero della Sicurezza di Stato della Germania dell’Est, meglio conosciuto come Stasi (abbreviazione di Staatssicherheit, sicurezza di Stato), operativo dal 1950 al 1989, anno della caduta del muro di Berlino e del regime comunista nella DDR.
Questo reportage ben documentato rivela una conoscenza approfondita delle manovre compiute dalla Stasi ai danni del popolo tedesco, affinché il partito socialista potesse rafforzare il proprio potere dittatoriale. Sono descritte le attività organizzate sotto il controllo di Erich Mielke e con il sostegno dell’URSS (e all’URSS) dentro e fuori lo Stato tedesco. Mielke, figura dal passato criminale, fu il capo senza scrupoli di una macchina del terrore, che agiva tramite varie strategie operative: dall’istallazione di microfoni negli edifici al reclutamento, spesso forzato, di liberi cittadini come spie; dall’addestramento di uomini e donne per sedurre persone chiave al pedinamento quotidiano. In ogni settore della vita quotidiana, scuole, università, ospedali, aule di giustizia, la Stasi era ben infiltrata, tanto da muovere pedine e personaggi centrali - o eliminarli - secondo i propri piani. Personaggi in vista come dottori, giornalisti, scrittori, sportivi, uomini di chiesa e gente del popolo potevano essere oggetto di attenzione. In nessun altro Paese al mondo si produsse un simile meccanismo di controllo della società.
Nella lunga trattazione sono descritte anche figure chiave del regime o semplici cittadini passati alla storia per aver avuto il coraggio di opporsi, coraggio pagato con la libertà o la vita. E non mancano le critiche: l’oppressione dei tedeschi si perpetrò sotto gli occhi degli Stati occidentali, che sin dall’edificazione del muro di Berlino non vollero vedere l’opposizione popolare al comunismo. Il libro chiarisce anche la “politica estera” della Stasi: il finanziamento o la copertura di terrorismo internazionale e lo spionaggio ai danni della vicina Repubblica Federale, degli USA, della Nato, in Africa e in America Latina.
La rete capillare di spionaggio di semplici cittadini quanto di stranieri sospettati di tramare contro il regime diffuse terrore presso i tedeschi dell’Est e fu resa pubblica solo dopo la caduta del muro. Emersero gli orrori di persecuzioni, violenze e insospettabili manovre sulle vite delle persone, tanto che i tedeschi manifestarono senza freni la loro rabbia invadendo gli uffici del Ministero (oggi museo) e pretendendo i fascicoli riguardanti le loro vite spiate e la loro serenità rubata. L’opera è tuttora in corso, tanta è la mole di documenti raccolti dalla Stasi, e il popolo stenta a trovare giustizia, perché tanti documenti sono stati distrutti dalla stessa Stasi sul finire dei giorni della DDR, perché gli infiltrati e le spie erano anche persone comuni, perché tante condanne furono legittimate da un apparato giudiziario alleato del partito socialista, perché il lavoro di recupero dei documenti è immane, le accuse innumerevoli.
I dati riportati e le dinamiche descritte da Koehler fanno rabbrividire e lasciano intendere che questo capitolo della storia tedesca rimarrà una ferita insanabile nel cuore dei cittadini tedeschi. La trattazione è arricchita da fotografie, note e un utile elenco in cui sono spiegati acronimi e sigle. La scrittura di Koehler è chiara, inequivocabile, e lascia al lettore ogni conclusione, sebbene a tratti non riesca a trattenere qualche giudizio o emozione personale.

Traduzione della quarta di copertina
In questa avvincente trattazione, John Koehler descrive nel dettaglio le innumerevoli attività del Ministero della Sicurezza di Stato della Germania dell’Est, meglio nota come Stasi. La Stasi, piovra gigante che muove i suoi tentacoli sui tedeschi della Germania dell’Est per reprimere gli oppositori politici e arrestare centinaia di migliaia di cittadini, si è dimostrata un apparato di polizia segreta e servizi di spionaggio tra i più potenti al mondo. Koehler ne esamina attentamente le attività dentro e fuori la Germania dell’Est, senza tralasciarne i programmi di repressione interna, spionaggio internazionale, terrorismo e formazione dei terroristi, e operazioni speciali in America Latina e Africa. John O. Koehler è stato corrispondente estero per la Associated Press per 28 anni, con incarichi di direzione degli uffici di Berlino e Bonn. È stato anche consigliere del Presidente Ronald Reagan e responsabile delle comunicazioni durante la sua presidenza.

martedì 12 luglio 2011

John Freely’s Istanbul

di Alessia Delcré




Titolo: John Freely’s Istanbul (La Istanbul di John Freely)
Autore: John Freely
Editore: Scala Publishers Ltd, Londra
Anno di pubblicazione: 2005
Formato: cm 16,5x23,5, brossura
Pagine: 216
Illustrazioni a colori
Lingua: inglese









Passeggiando per Istanbul, si delinea la traccia di una scrittura che sale e scende le alture della città, entra nelle moschee e si ferma a contemplarne i particolari, rivolge qualche parola a un passante e si ingolosisce al pensiero dei dolci locumus.
L’autore propone un libro composto da tanti quadri descrittivi quante sono le zone geografiche di Istanbul: quindici capitoli in tutto, sette colline più i quartieri periferici lungo il Bosforo e dell’area asiatica. Le descrizioni sono intrise di evidente passione per la vita frenetica ma ancora misteriosa della metropoli - Freely frequenta e ama Istanbul da decenni - a cui si coniuga però un’analisi razionale di luoghi, date, personaggi del presente e del passato.
Spesso l’autore confronta la metropoli cosmopolita attuale con quella degli anni ‘60, periodo a cui risale il suo primo approccio alla città turca. Inoltre, egli ama riprenderne le poetiche descrizioni del XVII secolo, uscite dalla penna del cronista Evliya Efendi, come testimonianza dell’immutabilità di alcuni usi e costumi (spesso legati ai dogmi religiosi) e del lento permeare di uno stile occidentale che ne confonde ormai i tratti distintivi.

Definire questo libro una guida turistica sarebbe riduttivo e non appropriato, visto che Freely arricchisce le pagine con proprie riflessioni, si sofferma su personaggi che hanno lasciato la loro impronta tangibile sullo svolgere storico degli eventi, apre parentesi su curiosità e aneddoti per visitare al meglio la metropoli, e non considera per contro le informazioni pratiche di soggiorno che il turista cerca invece nei manuali di viaggio.
Potremmo a tratti considerarlo un diario autobiografico, dato che l’autore ci rende partecipi delle sue sensazioni e dei continui raffronti con la Istanbul del suo passato.
O ancora potremmo considerare questo testo un mosaico pittorico in cui ogni scorcio della città è reso con tante pennellate che non ne esauriscono la conoscenza ma ne lasciano piuttosto un assaggio, un’intima emozione.
Per le particolarità storiche e architettoniche dei numerosi edifici di epoca bizantina e ottomana raffigurati nel libro, l’autore rimanda infatti alla lettura di suoi precedenti volumi, più esaustivi in tal senso (si veda Strolling through Istanbul e Blue Guide Istanbul).
In John Freely’s Istanbul primeggiano invece le impressioni, proprio come in un quadro impressionista in cui i soggetti ritratti sembrano essere stati catturati per errore da uno sguardo distratto. E invece sono la rielaborazione di uno spirito artistico che li conosce fin troppo bene.


Traduzione della quarta di copertina
John Freely conosce Istanbul tanto quanto August Hare - noto scrittore inglese vissuto nel XIX sec. - conosceva Roma.
Per quarantatré anni Freely ha studiato, esplorato, amato e omaggiato la sua città adottiva.
Camminare per le strade, salire su per le colline, visitare le moschee, i palazzi e i resti storici di Istanbul con Freely è apprendere di prima mano la complessa storia della Nuova Roma e della capitale imperiale turca che le succedette. L’autore ne conosce gli angoli più segreti, i personaggi del passato così come del presente, che sa connotare in spazi e tempi ben definiti.
In questo libro Freely esamina di nuovo la storia, la gente, le tradizioni e gli aromi della città a cui è stato così intimamente legato per quasi mezzo secolo, annotandone i cambiamenti insieme all’immutabilità del suo spirito e del suo carattere.
Ampliamente illustrato, con fotografie d’attualità e materiale storico riordinato, proveniente da archivi remoti, John Freely’s Istanbul è la confluenza di passione e sapere del più grande biografo moderno di questa città.

Nato a New York nel 1926, John Freely è stato professore di fisica a Istanbul fino al 1960, quando iniziò a esplorare la città passeggiando a piedi con moglie, figli e amici. A poco a poco il suo hobby diventò passione. Il suo primo libro, Strolling through Istanbul (Gironzolando per Istanbul) - scritto insieme a Hilary Sumner-Boyd - venne pubblicato nel 1972 e gli permise di affermarsi come classico del genere. Seguì la pubblicazione di altri 30 libri sulla storia e topografia della città.

lunedì 4 luglio 2011

Istanbul, sotto il velo la magnificenza

di Alessia Delcré

Istanbul, vivace metropoli con un ricco bagaglio storico, punto di incontro tra Oriente e Occidente, si presentava nel mio immaginario come una città magica, anche se la presenza di una religiosità così radicata come quella islamica creava veli di diffidenza che faticavo a sollevare.


L’arrivo all’aeroporto internazionale Sabiha Gökçen a Pendik/Kurtköy, sulla sponda asiatica, è una piacevole sorpresa: ordinato, moderno, l’aeroporto è dotato di apparecchiature di controllo sofisticate. Il tempo che accoglie me e i miei compagni di viaggio - siamo a metà marzo - è altrettanto inaspettato: nevica. Un autista ci attende all’uscita per accompagnarci in hotel, situato nel quartiere di Sultanahmet, cuore storico della città. Durante il trasferimento catturiamo incuriositi i primi scenari che sfilano ai nostri sguardi. Strade ampie, caselli autostradali, automobili molto simili a quelle europee, e sullo sfondo nuclei di città fatti di palazzi, zone boschive, luci che punteggiano la sera.
La neve continua a cadere, ma i fiocchi diventano mano a mano più radi fino a perdersi nel blu della notte. L’autista è silenzioso, noi turisti invece molto rumorosi per l’eccitazione di questo viaggio.
Superiamo due ponti, attraversando prima il Bosforo e poi il Corno d’Oro. Il traffico diventa più intenso, gli edifici assumono connotati storico-architettonici più definiti. Le prime moschee svettano sullo sky-line della città con i loro minareti. Da queste alte colonne a punta viene diffuso cinque volte al giorno l’adhan, il richiamo alla preghiera, da un muaddin, persona scelta per le sue qualità vocali e soprattutto morali. Lo sperimentiamo di persona la mattina seguente, quando verso le 5.00 lo sentiamo chiaramente dalla nostra camera d’hotel; è un buon inizio per immergersi nel clima del posto.
La fede islamica è molto sentita e praticata a Istanbul, e la presenza di decine di moschee attive disseminate in tutta la metropoli testimonia l’intensità della professione religiosa. La visita alle moschee è senz’altro uno degli aspetti più interessanti della città. L’accesso è in genere consentito anche ai non credenti, nel rispetto degli orari di preghiera e di alcune norme comportamentali.



Nel silenzio è più facile lasciarsi condurre dalle proprie sensazioni intime e saper apprezzare elementi architettonici tanto aggraziati. I colori vivaci e i motivi floreali e calligrafici delle piastrelle islamiche sono messi in risalto da costellazioni di lanterne, che paiono invitare le singole spiritualità ad adunarsi in preghiera. Nelle moschee si prega seduti o in ginocchio su vasti tappeti, il corpo e lo sguardo protesi in direzione della Mecca, come prescritto dal Corano.
In origine, quando Maometto confidava di riuscire a convertire all’islam la comunità ebraica, il profeta aveva prescritto di volgersi a Gerusalemme; la mancata risposta di quest’ultima, tuttavia, modificò la direzione della preghiera, e La Mecca, luogo frequentato dai Pagani, diventò il nuovo punto di riferimento. (1)
Mi perdo a osservare con quale raccoglimento i fedeli, pur nel via-vai turistico, siano assorti nella preghiera. Si tratta comunque sempre di uomini: alle donne non è permesso pregare nelle aree centrali e soprattutto unirsi al gruppo degli uomini. Le si vedono radunate in disparte, dietro a cancellate ai lati delle sale, il capo chino coperto da veli colorati, silenziose e umili nella loro sottomissione.
La separazione dei sessi è riscontrabile in ogni ambito della vita sociale. I bar e i locali di ritrovo sono frequentati solo da uomini, e per strada le donne formano gruppi che ben si distanziano dalle chiacchiere maschili. Il ruolo che la società islamica impone al gentil sesso è confinato all’interno delle mura domestiche, ma la donna è comunque il fulcro della vita famigliare, non solo perché in prima linea nella conduzione della casa ma in quanto responsabile della crescita dei figli e confidente di tutti i membri della famiglia. Uno status, questo, stabilito fin dall’epoca ottomana, quando figure femminili di spicco influivano da dietro le quinte sulle decisioni politiche e amministrative dei sultani, pur restando confinate nel mondo ovattato dell’harem. Basti pensare che erano le madri dei sultani a scegliere le concubine e a permettere o meno a queste ultime la scalata sociale per diventarne le predilette. (2)

La moschea più conosciuta e penso anche la più affascinante è quella di Sultan Ahmet, ordinata dal sultano Ahmet I (1603-1617), meglio nota come La Moschea Blu, per via delle migliaia di piastrelle blu presenti al suo interno.
Per grandiosità e bellezza essa rivaleggia con la vicina basilica di Aya Sofya, fatta costruire dall’imperatore Giustiniano (527-565) come edificio di culto cristiano. In seguito trasformata in moschea, è oggi visitabile come museo.
Altri imperdibili tappe turistiche restano la Cisterna Basilica, antico acquedotto bizantino completamente sotterraneo, opera anch’esso di Giustiniano (532) e il Palazzo Topkapi, iniziato a costruire nel 1453 su ordine di Mehmet il Conquistatore, poi dimora di numerosi sultani fino al XIX secolo, oggi museo con collezioni pregiate di antiche vesti dei sultani, armature e tesori regali.
Queste e numerose altre costruzioni di rilievo fanno di Istanbul un bazar storico e culturale vivo, che si svela ad ogni angolo di strada.



Una visita a piedi su e giù per le colline di Istanbul vale la pena anche per entrare in contatto con la gente e le sue tradizioni, ancora ben radicate nonostante l’occhio sia voltato verso la modernità. La metropoli turca è stata scelta nel 2010 come una delle capitali europee della cultura, e questo evento di pregio le ha dato la spinta per rinnovarsi e restaurare importanti monumenti altrimenti destinati alla rovina.
Oggi la vita culturale è molto vivace, grazie alla continua inaugurazione di mostre, musei, programmi di feste e manifestazioni in tutto l’arco dell’anno. Dal 2005 sono in corso anche i negoziati di adesione della Turchia all’Unione europea. Intanto, la coinvolgente energia della città continua a farsi sentire. La si evince nelle fiumane di cittadini e turisti che riempiono le strade. Nei colori, profumi e forme invitanti di dolciumi, cumuli di spezie e altre prelibatezze gastronomiche in bella mostra nei carretti ambulanti o dietro le vetrine. Negli attraenti oggetti di un ricco artigianato locale - tappeti, ceramiche, tessuti, lampade... - che mostra cura per il dettaglio e sapiente continuità della tradizione. Nelle multiple attività economiche in prevalenza commerciali, a volte anche bizzarre o introvabili nella società capitalista europea, che danno l’idea di una popolazione che non si scoraggia di fronte alla pesantezza o all’umiltà di certe professioni. Nella grande attenzione infine per l’aspetto religioso delle nostre esistenze, sempre alla ricerca di una fede a cui ancorarci saldamente, ma che spesso si fa fatica a trovare.






NOTE E RIF. BIBL.:
(1) Centro Studi sull’Ecumenismo, Cultura, cività e teologia nell’islam, a cura di Alessandro Gamba, Marinetti, Torino 2003
(2) L’altra metà della luna. Capire l’islam contemporaneo, a cura di Laura Cabria Ajmar e Marina Calloni, Marinetti, Torino 1993

giovedì 23 giugno 2011

Parle-leur de batailles, de rois et d'éléphants

di Francesca Desiderio



Titolo: Parle-leur de batailles, de rois et d’éléphants (Storie di battaglie, re, elefanti)
Autore: Mathias Énard
Editore: Actes Sud, Arles
Anno di pubblicazione: 2010
Formato: cm 11,5x21,7 brossura
Pagine: 154
Lingua: francese

Nel 1506, Bayezid II, sultano della nuova capitale dell’Impero ottomano Istanbul, chiama a sé Michelangelo affinché progetti un ponte sul Corno d’Oro.
In dissidio costante con Giulio II, Michelangelo accetta l’invito del grande rivale del papa e si allontana dall’Italia in cerca di rivalsa e di denari, più per indispettire il pontefice che per reale interesse ad assecondare la volontà del potente sultano.
Accolto con tutti gli onori nella vecchia Costantinopoli, l’artista viene ricevuto da una delegazione importante, composta anche da genovesi, fiorentini e veneziani stabilitisi a Istanbul; durante il soggiorno lo accompagna il poeta turco Mesihi, mentre il gran vizir Ali Pacha media tra i talenti dell’artista e i desideri del sultano.
Michelangelo va alla scoperta della città facendo suoi i colori, le voci delle strade piene di vita, la vivacità dei locali dove si intrattiene con il poeta turco, assiste a danze andaluse e ne apprezza le misteriose ballerine. Tra un disegno e l’altro - stanche esercitazioni più che frutti dell’ispirazione - Michelangelo si fa trascinare dai piaceri della carne, ammaliato da un'affascinante ballerina andalusa, sotto lo sguardo geloso di Mesihi, sempre più attratto dall’artista italiano.
L’ispirazione tarda a venire e l’artista, sollecitato dal vizir, realizza infine un progetto lineare ma possente. Alla consegna del disegno viene omaggiato dal sovrano con proprietà terriere in Bosnia e senza ricevere un soldo, con sua somma delusione. L’indifferenza di Giulio II alla sua assenza da Roma acuisce la sua rabbia e nel carteggio con il fratello Bonarroto e Giuliano da Sangallo si riconosce squattrinato in patria e all’estero, e deluso dai potenti.
Le cospirazioni contro il gran vizir e un attentato alla sua vita, per impedire all’infedele di costruire un’opera in terra islamica; il sentirsi imprigionato in una gabbia dorata; il pensiero dei pericolosi rivali Bramante e Raffaello in patria inducono infine Michelangelo a lasciare Istanbul, nonostante i lavori per la costruzione del ponte siano appena stati avviati.
Ma il 14 settembre 1509 un terremoto devasta Istanbul. Con la morte di Ali Pacha, due anni dopo, e di Bayezid II nel 1511, il progetto del ponte di Michelangelo passerà all’oblio, e ne resterà solo un disegno.

Valutazione critica
Énard romanza una vicenda storica ispirato dai recenti ritrovamenti a Istanbul di documenti che attestano il soggiorno di Michelangelo nella città ottomana e il suo progetto di un ponte sul Corno d’Oro.
Quanto ci sia di autentico in questa narrazione di poco più di 150 pagine non è dato sapere. A dare credibilità al racconto sono senz’altro le lettere inviate da Michelangelo ai familiari in Italia – che Énard stesso traduce dall’italiano -, le tante figure storiche che si avvicendano nel libro (su tutte il poeta turco Mesihi) e la descrizione della misteriosa e potente Istanbul.
L’autore mette al centro i problemi finanziari dell’artista, facendone il motore delle sue scelte professionali, i rapporti umani che deve aver instaurato e che devono avergli reso più piacevole il soggiorno nella temutissima capitale ottomana. Énard conferisce così al mitico artista contorni umani, attribuendogli istinti, sentimenti contrastanti e poco nobili, bisogni materiali, senza mai sminuire il mito.
La narrazione è scorrevole e veloce, la scrittura sciolta ma attenta e ricercata, così come i brevi dialoghi. La storia è suddivisa in tanti piccoli capitoli, come fossero piccoli quadri di singoli eventi, tessere di un mosaico che si compone via via che si legge, e il racconto è intervallato dalle lettere di Michelangelo ai familiari, che conferiscono autenticità agli eventi narrati.
Unico neo di questo piccolo capolavoro di Énard è la conclusione rapida e precipitosa, che tuttavia non ha impedito all’autore di vincere in patria il Prix Goncourt des Lycéens 2010.

Traduzione della quarta di copertina
Quando Michelangelo sbarca a Costantinopoli, il 13 maggio 1506, abbandonando i lavori di edificazione della tomba del Papa a Roma, sa di sfidare la potenza e la collera di Giulio II, papa guerriero e pessimo pagatore. Ma come ignorare l’invito del sultano Bayezid II, che gli propone, dopo aver rifiutato i progetti di Leonardo da Vinci, di progettare un ponte sul Corno d’Oro?
Questo romanzo ricco di cenni storici comincia così, appropriandosi di una vicenda realmente accaduta per svelare i misteri di questo viaggio.
Destabilizzante come l’incontro di un uomo del Rinascimento con le bellezze del mondo ottomano, preciso e cesellato come un’opera di oreficeria, questo ritratto dell’artista al lavoro è anche un’affascinante riflessione sull’atto della creazione e sull’emblematicità di un gesto verso l’altra sponda della civiltà che resta incompiuto.
Infatti, attraverso il resoconto di quelle settimane dimenticate dalla Storia, Mathias Énard traccia i contorni di una geografia politica che, a distanza di cinque secoli, soffre ancora di incertezze.

Nato nel 1972, Mathias Enard ha studiato il persiano e l’arabo. Vive a Barcellona e soggiorna per lunghi periodi in Medio Oriente. Per Actes Sud ha pubblicato tre romanzi: La Perfection du tir (2003, Prix des cinq continents de la francophonie; Babel n° 903), Remonter l’Orénoque (2005) e Zone (2008; Babel n° 1020), premiato con il Prix Décembre 2008 e il Prix du Livre Inter 2009.

giovedì 2 giugno 2011

Belle Époque. Riflessioni sull’arte tra il 1880 e il 1915

di Francesca Desiderio

Sul finire dell’Ottocento, quando l’Europa vive i primi traguardi dell’era industriale in termini di benessere materiale, l’arte applicata si interroga sulla propria missione e funzione pratica. L’epoca è segnata da un crescente imbruttimento delle manifatture, del paesaggio urbano e dalla perdita di senso estetico, nell’appiattimento minaccioso della produzione in serie. Accanto alle correnti artistiche di accademia, prodotte dall’élite culturale, nasce quindi un nuovo approccio alle arti e all’artigianato, meno nobile ma più a uso e consumo della società, per recuperare le belle forme e restituire prestigio anche ai mestieri artigianali dell’età preindustriale. È l’origine del Modernismo.
In principio, verso gli anni Ottanta, la prima avanguardia modernista trae grande ispirazione dal popolo. L’interesse per le condizioni misere delle classi lavoratrici induce a guardare a epoche del passato, quando i mestieri più umili e l’artigianato costituivano l’anima della società. Già il Naturalismo e il Verismo avevano guardato al popolo dei lavoratori, contadini e operai. Si diffondono sempre più idee socialiste, apprezzate anche dalle élite artistiche – le stesse che, contrarie al senso del pratico e del concreto espresso dal Positivismo materialista, stavano dando i natali al Decadentismo e al Simbolismo.
Fucina dei primi prodotti artistici di forte matrice ideologica è l’Inghilterra, scenario della Rivoluzione industriale e delle prime trasformazioni sociali e di costume. Nel 1884, sulla scia dell’insegnamento di Ruskin e dei Pre-Raffaelliti, fautori di un revival neomedioevale e romantico, William Morris caldeggia il recupero dei valori del Medioevo contadino, modello di una società più pura, per ispirare così la produzione di arti applicate alla quotidianità; bello e utile devono fondersi, anche nell’impiego di materiali inconsueti nell’arte (ceramica, vetro, ferro, cemento). Morris dà quindi vita alla Arts and Crafts Exhibition Society, con l’obiettivo di produrre un artigianato dal gusto artistico e restituire ai costumi una morale.
Il connubio tra senso estetico e utilità sociale sembra essere raggiunto con l’Art Nouveau, arte non accademica che unisce tecnologie e ornamenti artigianali nell’arredamento, nell’architettura e nell’oggettistica. Il nuovo stile si diffonde in tutta Europa con il nome di Modern Style (Inghilterra), Art Nouveau (Francia), Modernismo (Spagna), Liberty (Italia, dal nome del commerciante inglese di mobili che aveva diffuso per primo un nuovo gusto), Jugendstil (Germania), Sezessionstil (Austria), per assumere in ciascun paese connotazioni proprie. Il movimento si caratterizza per la determinante propensione al decorativismo, basato su elementi floreali, curvilinei, fitomorfi, di ispirazione orientale. Geometrie sinuose impreziosiscono la disparata oggettistica di uso quotidiano realizzata in materiali più diversi.



Manifesto pubblicitario di Alphonse Mucha

Contemporaneamente all’Art Nouveau, l’arte “colta”, più intellettuale e accademica, appare in contrasto con tanta – se pur relativa – democratizzazione e sviluppa un atteggiamento parallelo, inquieto, privo di ottimismo e alla ricerca di valori nascosti, non evidenti nella quotidianità, più alti: è questa l’essenza del Decadentismo e del Simbolismo. Conclusesi le parabole realista e impressionista, l’artista d’élite va ora alla ricerca di corrispondenze tra suoni, colori, forme e sensazioni, una ricerca all’insegna della soggettività, che lascia risultati in opere che ritraggono l’illusione o i significati.
Nei primi anni del Novecento, l’Art Nouveau fa i conti con una realtà inattesa: l’arte concepita per il popolo si scopre destinata alla sola borghesia. Gli oggetti non sono a buon mercato, data la fattura preziosa, e sono pochi coloro che possono accedervi. Inoltre, ha sovraccaricato l’artigianato di ornamenti e si è appesantita, quando i modelli estetici della società moderna si ispirano al dinamismo, alla velocità. L’anelito alla semplificazione delle forme caratterizza così le avanguardie di inizio Novecento: in contrasto tanto con i modernisti quanto con la tradizione, si cerca l’astrazione, l’enfasi delle forme e dei colori a prescindere dai contenuti. Nascono il Fauvismo (1905), il Cubismo (1907), il Futurismo (1909), sino al limite estremo dell’Astrattismo (1910).
È in quest’epoca per tutti nota come Belle Époque che si crea così la rottura definitiva tra pubblico e arte. Il pubblico non riesce più a seguire gli intellettualismi degli artisti. L’unica avanguardia in grado di essere capita è il cinema, che sarà sviluppato come intrattenimento di massa e mezzo di propaganda negli anni a venire.
Con la prima guerra mondiale si sopisce quella straordinaria euforia creativa che nel passaggio di secolo ha segnato tutte le arti, dalla pittura alla musica, dalla letteratura all’architettura, quale espressione della volontà di rinnovamento all’insegna di distacco da forme e contenuti della tradizione. La Belle Époque sarebbe passata alla Storia come uno dei momenti di massima espansione artistica e culturale, oltre che tecnologica, economica e sociale. Nel bene o nel male, mai più, nel corso del Novecento, si sarebbe assistito a tanto fermento.


Riferimenti bibliografici utili:
Fahr-Becker G., Art Nouveau, Gribaudo/Könemann, Milano 2004
Hobsbawm Eric J., L’età degli imperi. 1875-1914, Laterza editore, Bari 2000
Storia dell’arte italiana, diretta da Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Electa/Mondadori, Milano 1992, 4 voll.; vol. IV.