mercoledì 29 febbraio 2012

Per le strade di Bukhara

Nella testa la melodia suonata dal duduk accende immagini di Bukhara, la città del secolo scorso, dal colore della sabbia con le cupole azzurre.
Sul profilo dell’orizzonte, al tramonto, un bambino vestito di poco, un cellulare in tasca, gioca a pallone con amici improvvisando un campo da calcio negli spazi delimitati dalle mura di antichi bazar e madrase.


Lungo una strada costeggiata di edifici che sembrano macerie, una ragazza siede sui gradini di accesso a un negozio di tè e spezie del XV secolo, con in braccio un bambino, e sorride, con i suoi occhi orientali, placida e cortese al mio passaggio.
Un omaccione si alza da uno sgabello, interrompendo le chiacchiere con un vicino, per rientrare nel gabbiotto da cui serve spezie e frutta secca ai clienti, riempiendone cartocci che poi mette in buste di plastica nera.
All’interno del bazar, al suono di melodie mediorientali, un ragazzo incide con martello e scalpello un piatto di metallo con tortuosi motivi islamici, e donne corpulente in lunghe tuniche litigano tra loro mentre mi gridano di acquistare solo i loro ricami Suzani.
Una bambina riceve istruzioni dalla madre che la spinge verso un gruppo di turisti, un’altra aiuta la propria a sistemare i meloni in vendita direttamente sulla strada.
Due donne sedute al tavolo di un ristoro locale, lungo una strada trafficata di furgoncini Daewoo e biciclette, immergono le dita nel piatto e mangiano il plov, riso e carne.
Un gruppo di ragazzi chiacchiera appena fuori da una madrasa dove si insegna il Corano, e squadra con occhi ostili il turista che, ignaro del divieto, minaccia di entrarvi.
In una madrasa di affari e commerci un uomo siede tra due botteghe a suonare uno straziante strumento a corde, un violino dal suadente lamento.
Una donna alta e grossa dall’intera dentatura dorata mi sorride orgogliosa, gambe non depilate, calzini alle caviglie e piedi nelle ciabatte, e tanti ferri in mano a intrecciare una scarpa di lana.
Dopo il tramonto si spengono tutte le luci, le strade impolverate del quartiere di case di argilla e fango sono abbandonate, restano buie, un labirinto percorribile solo alla luce di una torcia, facendo attenzione a pozzi e buche.
Nella città dove si cammina in ciabatte e i piedi sono impolverati, dove gli sguardi sono pacifici, profondi e di una cordialità sincera, le ragazze non si accompagnano agli uomini, non passeggiano gruppi di giovani. Uomo e donna non si incontrano se non c’è tra loro un matrimonio o la sua promessa. Non si parlano neanche. Tanti bambini evitano la scuola e assistono i genitori nei commerci. Non c’è cura del proprio corpo, né igiene.


Tutto quel colore, quella vita animata, quella frutta generosa accatastata ai bordi delle strade è un’abbondanza per tutti. Le strade trasudano energia, la gente è giovane. La vita è rimasta al secolo scorso, all’ombra delle moschee rivestite di ceramiche di cobalto, lascito di antichi saperi dispersi, di antichi regni costruiti sulla forza e sulla scienza. Al tramonto il sole fa brillare il loro smalto, mentre un carretto passa, tirato da un bambino.

Samarcanda, sulle orme di Tamerlano

Una romantica leggenda narra che Kand, figlia di un re, e Samar, figlio di una famiglia povera, si innamorarono, e che, in memoria del loro amore reso impossibile dal re, che uccise il giovane inducendo la figlia a togliersi la vita, gli abitanti del luogo chiamarono la città Samarcanda…
Sorta 2500 anni fa, Samarqand fu attraversata da Alessandro Magno, occupata dagli arabi musulmani, devastata da Gengis Khan nel XIII secolo per poi risorgere sotto Tamerlano e i suoi discendenti, nel XV secolo. Le glorie e le fortune avverse della città uzbeka si sono alternate nei secoli sino a quando, nel XX secolo, sotto la dominazione russa prima e sovietica dopo, un importante intervento restaurativo ha restituito splendore all’architettura tipica di questa terra, al confine tra cultura islamica e stile sovietico, alle porte d’Oriente.
È una terra di mezzo, oggi in cerca di un’identità propria, divisa nel suo aspetto ora antico ora moderno. Il sapore antico della città è trasmesso dai lasciti di Tamerlano, che, dopo la distruzione voluta dal mongolo Gengis Khan, riconquistò terre e Paesi circostanti per farla risplendere come capitale del più vasto impero islamico della storia, a cavallo tra il XIV e il XV secolo.
I suoi edifici islamici, da madrase e moschee al mausoleo in cui Tamerlano (Timur Lenk, “lo zoppo”) è sepolto, sono rivestiti di ceramica azzurra o smaltata di quel blu cobalto ereditato dalla ricetta iraniana. Gli ori di Samarcanda sono gli azzurri lucenti delle ceramiche che la rivestono, che brillano sotto il raggi del sole al tramonto. Sulle mura degli edifici storici, intarsi di piastrelle policrome raffigurano motivi vegetali, foglie e fiori, o parole nell’antica scrittura cufica.

Piazza Registan

Cuore della città antica e moderna è il Registan, piazza cinta da tre edifici dalle facciate squadrate rivestite di mattonelle policrome, sul solito sfondo azzurro: la madrasa Ulug Beg (XV secolo), lo Sher-Dor e il Tilla Kari (XVII secolo). In questa piazza dal sapore leggendario ci si sente proiettati in un passato dimenticato, appena un vago ricordo di tempi antichi, di civiltà appena sfiorate dalla nostra.
Periferica è invece la necropoli di Shah-i-zinda, cittadella-cimitero che Tamerlano volle edificare per le donne della sua famiglia, su una piccola collina. Salita la scalinata, si apre una strada lastricata, un lungo corridoio, come la via centrale di un borgo, dove le case sono cappelle funerarie dagli ingressi simili a piccole madrase, talvolta sormontate da cupole azzurre. Ancora tornano le maioliche dipinte o intarsiate con motivi islamici, su una base di smalti blu o azzurri.
Importante retaggio della fiorente età di Tamerlano è l’osservatorio astronomico del nipote Ulug Beg, di cui spicca il grande astrolabio sotterraneo. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a una porta magica verso l’avvenire, verso dimensioni sconosciute. Eppure di quel fiorente futuro che sembrava promettere il grande imperatore non resta più nulla. L’Uzbekistan odierno sembra smarrito, diviso tra la gravitazione attorno alla Russia e il recupero di tradizioni islamiche. Samarcanda trasmette anche questo disorientato presente.



Persone dall’aspetto mongolo, visi tondi e occhi scuri a mandorla, e persone dal volto slavo; persone vestite e atteggiate ora alla maniera occidentale ora in stile islamico, con lunghe tuniche, burqa, veli, e poi edifici moderni oppure case malandate dall’aspetto coloniale affacciate su strade polverose percorse da biciclette e carretti. Ora strade dell’aspetto periferico di polvere e sassi, ora contesti più cittadini, di vago gusto europeo, con marciapiedi piastrellati e negozi, come quella che porta dalla moschea di Bibi Hanim al bazar, un mercato vivace e aperto dove si vendono ceste coloratissime di frutta fresca e secca.
Nell’allegro bazar si contratta, si discute, si compra o si rifiutano offerte. E la gente sorride, facendoti sentire parte di questa famiglia multietnica ai confini tra più mondi.