venerdì 20 luglio 2012

Verdon, fascino verticale anche dal basso


di Alessia Delcré


Sono pochi i negozi (di primissima necessità) e le "attrattive turistiche", ma in estate i bar del paese si riempiono di arrampicatori che, nelle calde mattinate, si radunano con cartine e tanto entusiasmo davanti a tazze fumanti per organizzare i percorsi verticali.



Non è comunque prerogativa indispensabile essere grimpeurs per poter godere delle bellezze e delle emozioni di questo territorio. Se sprovvisti di corde e imbragature, o semplicemente amanti del trekking, consiglio un itinerario che io stessa ho percorso con famiglia a carico ("a carico" proprio nel senso letterale del termine, ovvero con bimbi piccoli portati in zaino sulla schiena).
E' il Sentier des Pêcheurs, un anello lungo 11 km con tempo di percorrenza di 4 ore circa. Si intraprende al Col de l'Olivier, sulla strada che da La Palud porta a Moustier St. Marie. Il percorso inizia a mezza quota dapprima in ombra, poi totalmente esposto per via della tipicità rocciosa. Dopo circa un'ora e mezza si scende fino al fiume, dove si può piacevolmente sostare per un pic-nic. Le acque verdi si ammirano però meglio dall'alto, quando si riprende il sentiero che costeggia le acque in leggera salita. Le tonalità di verde smeraldo e di blu profondo rapiscono gli occhi, contrastate dal bianco di alcune pareti rocciose. Un tratto di via ferrata dona all'itinerario un brivido d'avventura, ma è presto superato e si prosegue fino a giungere a prati ampi in cui pascolano alcuni ciuchini curiosi.


Altre passeggiate che si possono fare in questa zona sono proposte nella cartina qui allegata. Vediamo qualche nozione sui sentieri:
1- Plein voir 
Sentiero per escursionisti, lunghezza 7 km, durata 4 h 30 circa, dislivello 600 m.
Circuito di cresta su antiche mulattiere, con panorama sul lago di St. Croix.
2- Moustiers-La Palud
Sentiero per escursionisti esperti, lunghezza 17 km, durata 6/7 h, dislivello 900 m.
Tappa classica del tour Moustiers-Castellane, con vista dominante sui canyon.
3- Sentier des Pêcheurs
4- Sentier Bastidon con anello Maireste-La Palud-Barbin
Per escursionisti esperti, lunghezza 15 km, durata 6 h, dislivello 700 m.
Ben soleggiato, è frequentato soprattutto nella stagione fredda.
Lungo il percorso può capitare di imbattersi in branchi di camosci.
5- Découverte du Lèzard
Sentiero poco impegnativo, lunghezza variabile a seconda delle varianti, durata da 30 min. a 2h 30/4 h.
Gira intorno al Point Sublime, consentendo di scoprire la storia umana e geologica di questo territorio.
6- Grand Margès
Sentiero per escursionisti esperti, lunghezza 14 km, durata 6 h, dislivello 800 m.
Si arriva alla Cima del Grand Margès, con vista sulla piana di Canjuers. Sentiero a tratti sconnesso e con segnaletica incerta.
7- Sentier de l'Imbut
Per escursionisti esperti, lunghezza 9,5 km, durata 5 h 30, dislivello 600 m.
E' uno dei più spettacolari delle Gole: si snoda tra boschi di bossi, faggi e tassi.
In alcuni passaggi prestare attenzione al sentiero molto esposto.
8- Belvedere de Rancoumas
Per escusionisti, lunghezza 8 km (compreso ritorno), durata 4 h 30, dislivello 600 m.
Anello sul Pont du Tusset passando davanti alla falesia dell'Escales. Superba vista.

Dopo tutte queste bellezze naturali, per ultimare il viaggio consiglio anche un'escursione culturale all'affascinante paesino di Moustiers Sainte Marie, posto appena fuori dalle Gole.
Totalmente arroccato, ricco di vicoli suggestivi e di piazzette contornate da platani secolari, Moustier è un pullulare di turisti, di produzioni artigianali, di laboratori d'arte e di bonheur.
E' anche sede degli Uffici del Parco regionale del Verdon (www.parcduverdon.fr).
Abbracciato da una cinta fortificata di notevole bellezza, propone tra i suoi sentieri quello alla chiesa di Notre Dame de Beauvoir, che sovrasta il centro abitato. Da Moustiers iniziano le coltivazioni dei campi di lavanda, che verso il mese di luglio esplodono nella loro rigogliosa fioritura, colorando ettari e ettari di viola e profumando l'aria della nota fragranza provenzale.


lunedì 4 giugno 2012

Verdon, i colori del sublime

Viaggio in Provenza, Francia meridionale.
Destinazione: gole del Verdon. Periodo: fine aprile. Temperatura mite, cielo piovoso.

Usciamo in autostrada a Nizza, proseguendo verso Digne. La strada è molto suggestiva e si incanala tra alte rocce scolpite dal vento. A tratti le rocce sembrano caderti addosso, serrando l'asfalto in una morsa calcarea; a tratti sono varchi verso panorami che non ti aspetti, aperti e verdeggianti. Dolci declivi punteggiati di ocra delle fattorie in tufo con le imposte color lavanda, di uliveti e greggi di pecore al pascolo, di borghi schivi in lontananza aggrappati a fazzoletti verticali, attenti e silenziosi come sentinelle che sorvegliano i passanti.
Entrevaux (515 mslm) è un abitato medioevale con accesso da un ponte levatoio. Ci accoglie con una fitta pioggia battente e i suoi pavé lucidi, le piazzette vuote. Le alte mura di difesa ancora presenti rafforzano la sua aria mistica e storica, da cui si esce per la "porta di Francia" o la "porta d'Italia", retaggio di un'urbanistica di crocevia nei commerci verso le due nazioni. Ci immergiamo in stretti vicoli, avvolti da alte case adornate di gerani e  bottegucce dalle insegne antiche. Vecchi platani sfilano a lato, sulle piazze, sulle strade. La primavera è appena iniziata, è difficile trovare gente in giro.
Lasciamo Entrevaux e il suo fascino assorto e ci dirigiamo verso Castellane, passando per il Lago di Castillon. La scenografia naturale è molto varia. Arriviamo a quota 1124 mslm del Colle di Toutes Aures: gli ulivi hanno lasciato posto a frassini e larici e a tappezzanti dalle tinte cangianti di verdi e bruni. Da Castellane, altra cittadina medioevale sovrastata da un'altissima roccia con in cima una chiesa, parte la spettacolare Route 952, strada serpeggiante parallela al fiume Verdon. Percorrendola, si è spettatori di paesaggi di rara bellezza. Agglomerati di rocce si innalzano ovunque come mostri, bellissimi, dalle forme stravaganti e dai grandi occhi, vuoti materici che vorremmo - per presunzione - scolpiti da mano umana. A ogni curva ti assalgono, onnipresenti e opprimenti, tanto da farti sentire piccolo e a disagio. Ma quando li oltrepassi, e la mente ritorna lucida, ti accorgi di quanto siano meravigliosi, sublimi.
Ed è appunto il Point Sublime che stiamo cercando - noi viaggiatori romantici che vogliamo sentire nella pelle il brivido di una forte emozione - un quadro paesaggistico che dicono abbracci in larga misura il canyon del Verdon e le sue torri minerali, profilando orizzonti dalle forme inquiete. La natura, maestra nel creare i più bei quadri al mondo, ha qui intinto il pennello nel rosso fuoco, impregnandovi la terra argillosa;  nel bianco candido, spennellando le rocce; nei freschi verdi per adornare gli alberi e i cespugli; nel giallo carico per regalare raggi di sole alle forsizie...
Non è forse in Provenza che grandi pittori hanno trovato la loro musa ispiratrice, colpiti proprio da questi accesi contrasti cromatici e di forme naturali?
Arriviamo al Point Sublime. E' una vertigine. Le gole scavate per un centinaio di metri si tuffano in un fiume serpeggiante verde smeraldo. Le torri di roccia tutte intorno disegnano profili sfrangiati o piramidali. Visuali appaganti e stimolanti, come un sogno appena abbozzato, che non può trovare pace fino a quando, con la presenza dei nostri passi, tracceremo percorsi giù nelle gole, o ci inerpicheremo tra i passaggi difficili tra le rocce, gustando e provando sulla pelle quello che gli occhi già hanno segnato nel cuore.
Ma questa è un'altra storia. Ad oggi il sapore del sogno...

lunedì 30 aprile 2012

Tablet & Pen

Literary landscapes from the modern Middle East

di Alessia Delcré






Titolo: Tablet & Pen,
literary landscapes from the modern Middle East
(Penna e tavoletta, panorami letterari
dal moderno Medio Oriente)
Autore ed Editore: Reza Aslan
Anno di pubblicazione: 2011
Pagine: 657












Penna e tavoletta
(poesia)

Non smetterò di dar voce a questa penna ma continuerò
a tener vivo il ricordo di ciò che avviene nell'anima,
a raccogliere i modi in cui si esprime l'amore,
a mantenere rigogliosa questa età
che si inaridisce come i deserti.


Anche se il dolore di questi giorni
deve diventare sempre più acuto,
e i tiranni non rinunciano alla loro malvagità,
io subisco i loro amari sbagli senza alcun rimorso,
visto che il respiro che si spegne
nutrirà ogni malanno.


Intanto l'osteria è ancora aperta,
con il suo vino rosso, cremisi come i freddi
e alti muri del tempio.
E il sangue riempie nel frattempo le mie lacrime
e le fa brillare, dipingendo con ogni goccia
l'amato roseo sorriso.


Che gli altri vivano con calma e pace indifferente.
Io ascolto i tormenti della terra
e non smetterò mai di ascoltarli.

- FAIZ AHMED FAIZ -
Pakistan


Le gesta dell'umanità, così come le abbiamo imparate sui libri di scuola,  sono in effetti un racconto a senso unico, in quanto - si sa - la storia è sempre stata scritta dai vincitori.
E' contro questo grande inganno che si batte l'autore di Tablet & Pen,  proponendo in questo contesto una vasta raccolta letteraria scritta da popoli sottomessi.
Siamo nel XX secolo, in Medio Oriente. Contro l'imperialismo occidentale, tante voci si alzano a testimoniare e a contestare in versi e in prosa violenze e soprusi. Sono parole toccanti, pronunciate in diverse lingue, mai tradotte prima per un uso occidentale.
Grazie all'appoggio di editori mediorientali - Michael Beard per l'arabo, Sholeh Wolpé per il persiano, Zeenut Ziad per l'urdu - Reza Aslan - già attivo come insegnante, scrittore, editore e studioso di religioni - ci offre un buffet veramente straordinario in cui i sentimenti sofferti di un vivere ai margini sono le spezie dai sapori forti di piatti multiculturali, che finalmente ci aprono finestre su stili di vita,  quotidianità ed esperienze diverse da quelle finora imparate.


Traduzione della quarta di copertina
I Paesi che si estendono lungo gli ampi orizzonti del Medio Oriente - dal Marocco all'Iran, dalla Turchia al Pakistan - vantano diverse culture, lingue e religioni. Eppure, il panorama letterario di questa parte dinamica del mondo è stato unito non da confini e nazionalità, ma da una comune esperienza di imperialismo occidentale.
Profondamente consapevole delle cicatrici raccolte lasciate da un retaggio della dominazione coloniale, l'acclamato scrittore Reza Aslan, con un team di tre redattori regionali e settantasette traduttori, dimostra chiaramente con Tablet & Pen come la letteratura può, in realtà, essere utilizzata per foggiare le identità e servire come una cronaca straordinaria delle disgregate storie di questa regione.
Attivo in Words without borders (Parole senza frontiere), associazione che promuove lo scambio internazionale attraverso la traduzione e la pubblicazione del meglio della letteratura mondiale, Aslan ha volutamente collocato questo volume nel XX secolo, al di là dei confini familiari del passato ottomano, ritenendo che gli scrittori che sono emersi nelle ultime centinaia di anni non abbiano ricevuto la degna lode. Questa collezione monumentale, di quasi duecento pezzi, tra racconti, romanzi, memorie, saggi e poesie - molti dei quali presentati in lingua inglese per la prima volta - espone opere tradotte da arabo, persiano, urdu e turco. Organizzato cronologicamente, il volume abbraccia un secolo di letteratura - dal famoso poeta arabo Khalil Gibran ai premi Nobel Naguib Mahfouz e Orhan Pamuk, dal grande poeta siro-libanese Adonis alla gran dama della fiction Urdu Ismat Chughtai - collegata dalla straordinariamente ricca tradizione di culture illuminate, troppo spesso ignorate dal canone occidentale. Spostando la percezione americana del mondo mediorientale lontano da religione e politica, Tablet & Pen evoca gli splendori di una regione attraverso la voce dei suoi narratori e poeti, la cui letteratura ci racconta una storia urgente e liberatoria. Con una ricchezza di informazioni contestuali che posiziona il testo tra l'ampiezza storica, politica e culturale della regione, Tablet & Pen è un libro trascendente, da divorare dall'inizio alla fine, come un'unica corposa narrazione.

Reza Aslan è professore di scrittura creativa alla University of California di Riverside; è l'autore di No god but God (Non dio ma Dio) e di Beyond Fundamentalism (Al di là del Fondamentalismo). Vive a Los Angeles. Per maggiori informazioni, visitare il sito www.rezaaslan.com.

mercoledì 4 aprile 2012

The Company. The Story of a Murderer


di Francesca Desiderio


Titolo: The Company. The Story of a murderer (La comunità dei naufraghi. Storia di un assassino)
Autrice: Arabella Edge
Editore: Picador, GB
Anno di pubblicazione: 2000
Pagine: 371
Lingua: inglese


The Company è la storia romanzata di un ammutinamento e di un massacro realmente accaduti nel 1629. Protagonista della macabra storia è Jeronimus Cornelisz, speziale esperto di polveri, droghe, preparati, di cui fa uso illecito per soddisfare richieste nella ricca e corrotta Amsterdam della prima metà del Seicento.
Formato durante l’adolescenza da Torrentius, amato mentore che lo inizia ai segreti della chimica, del cinismo e del libertinaggio intellettuale, esercita la propria arte fino alla condanna all’esilio per stregoneria e atti di magia. Si imbarca sulla Batavia, nave della Compagnia olandese delle Indie orientali, diretta verso le colone olandesi d’Indonesia.
La brama di impadronirsi del carico di oro e argento lo induce a escogitare con il capitano un piano per avvelenare gli oltre trecento passeggeri, ma, prima di riuscirci, la nave si incaglia in una barriera corallina al largo della costa australiana. I passeggeri vengono portati in salvo su un’isola, mentre il comandante della compagnia e il capitano si allontanano su una scialuppa in cerca di salvataggi. I superstiti, convinti della filantropia insita nel suo mestiere di speziale, investono Jeronimus del titolo di “capitano-generale” dell’isola, ma l’uomo, intimamente convinto della propria predestinazione al potere e alle fortune, approfitta della fiducia concessagli e instaura via via un regno personale.
Subdolo e ambizioso, pianifica di ridurre il numero dei sopravvissuti per razionalizzare le risorse. Lascia credere che un gruppo di persone mandate in ricognizione nelle isole vicine vi abbia trovato acqua dolce, e convince numerosi naufraghi a lasciare l’isola madre. Induce i restanti a rispettare le regole del consiglio da lui presieduto, arrogandosi il diritto di giudicare e condannare, grazie al sostengo di pochi fedelissimi. Dopo i primi omicidi per eliminare compagni divenuti sempre più sospettosi e scomodi, i fedeli seguaci praticano assassinii e violenze in modo sempre più spudorato, con il pretesto di mantenere l’ordine. Stupri, processi improvvisati, pene capitali decimano il numero dei naufraghi e non scalfiscono in Jeronimus la convinzione di essere un’anima buona, meritevole di riconoscenza per aver salvato tante vite, soprattutto quella di Lucretia, donna che mai cederà al suo corteggiamento, nonostante le attenzioni ricevute.
Jeronimus rigetta ogni accusa di violenza e si crede nel giusto, deride i credenti e irride al loro dio esaltando la libertà personale, in un crescente delirio di onnipotenza.
Intenzionato ad accordarsi con i naufraghi di un’altra isola per spartire le risorse divenute più scarse, si reca sull’isola a bordo di una zattera e lì viene catturato, proprio mentre sopraggiunge una nave di salvataggio capitanata dal comandante della Batavia.
Jeronimus sarà processato sull’isola stessa, condannato all’amputazione delle mani e all’impiccagione.


Note sul libro
L’autrice romanza abilmente un storia macabra per indagare sulla depravazione umana, offrendo dettagli storici e producendo un quadro psicologico di un uomo egocentrico, megalomane, carismatico e convinto della fondatezza del proprio pensiero e delle proprie azioni.

The Company. The Story of a Murderer è stato il primo romanzo di Arabella Edge, scrittrice nata a Londra e residente in Australia da circa vent’anni. Il libro, pubblicato nel 2000, è diventato un best seller in Australia, dove ha vinto nel 2001 il Commonwealth Writers’ Prize come miglior libro dell’Asia sudorientale e Pacifico meridionale.


Traduzione della quarta di copertina
Io, Jeronimus, preparo fiale e misuro polveri su bilancini di bronzo, distillo pozioni, mercanteggio oppio e arsenico. Damerini e imbellettati di Amsterdam mi cercano a frotte per rimediare cure, elisir d’amore, interventi per abortire figli bastardi e, ovviamente, veleni. Ah, i valeni…

The Company è basato sulla vicenda storica della Batavia, nave della Compagnia olandese delle Indie orientali affondata al largo dell’Australia occidentale nel 1629. Jeroninums Cornelisz, speziale trentenne, crea un brutale mondo anti-utopico a spese dei sopravvissuti, decimandone progressivamente il numero con inganni diabolici e scorte di arsenico.
Bagnata dal sangue di innocenti e malvagi, la comunità dei naufraghi sprofonda, con il peso della storia, nel cuore delle tenebre.

venerdì 2 marzo 2012

Il fascino dell'architettura islamica

L'Islam nasce e si diffonde in Medio Oriente dalla seconda metà del VII secolo d.C. Il vasto impero che cinge terre dal Maghreb all'India si frammenta a partire dal X secolo, e ciascuna area geografica toccata dall'Islam (Maghreb e Andalusia, Egitto, Siria, Giordania, Iran, Turkestan o Asia centrale e India) subisce l'impronta indelebile dei propri regni, anche nelle arti. A segnare l'ascesa di un regno o il suo fiorire rispetto agli altri sono le dinastie.

La prima dinastia a delineare il gusto architettonico islamico è quella degli Omayyadi, nelle aree delle attuali Siria, Giordania e Israele, tra il 661 e il 750 d.C. L’architettura dei nuovi luoghi di culto (santuari e moschee) che si affermano con la nuova fede islamica si ispira alle forme bizantine, con l’abbandono dello sviluppo in senso longitudinale e l’allargamento degli spazi interni, e la diffusione di piante a base ottogonale. Viene inserito il mihrab, o nicchia, che indica il lato verso cui pregare; all’esterno, sono aggiunte le corti (sahn), circondate da porticati (riwaq) e minareti (manar). Sul fronte della decorazione, si rafforza l'uso del mosaico in pasta vitrea, e cominciano ad affermarsi disegni astratti, geometrici, e l’uso decorativo della scrittura (in stile cufico).

Moschea degli Omayyadi a Damasco

Con la dinastia degli Abbasidi (750-1258), il centro del potere si sposta in Iraq: le capitali dell’impero islamico saranno Bagdad prima (VIII secolo) e Samarra poi (IX secolo), dove fioriscono moschee e sono perfezionati i minareti.
Dal X secolo, con la frammentazione dell’impero islamico in regni autonomi, ciascuno governato da dinastie proprie, l’arte e l’architettura islamica si evolvono secondo gusti e varianti regionali, per cui non è più possibile riconoscere un’uniformità di forme e materiali. Comune è, tuttavia, la predilezione per la ceramica (IX e X secoli) come rivestimento di edifici e per l'oggettistica: nel X secolo, nell’area mesopotamica, sono inventati i lustri metallici, ovvero smalti ricavati dai metalli, capaci di creare iridescenze sulle argille. Predominano il verde rame e il blu cobalto.

Moschea di Cordoba

Nel 756, l’ultimo discendente degli Omayyadi si rifugia in Spagna meridionale e fonda un emirato a Cordoba, dando così i natali al regno islamico d’Andalusia, tale fino al 1492, quando Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona allontanano i mori dal suolo spagnolo. Un esempio dell’architettura locale è la moschea di Cordoba, costruita tra i secoli VIII e X, con un’ampia pianta e un fitto colonnato con archi a botte. I giardini si affermano come luoghi privilegiati all'interno degli edifici, come elementi distintivi dei palazzi reali (Alhambra a Granada, del XIV secolo, e Siviglia). Fiorisce l’architettura del Maghreb, soprattutto nel Marocco (Fez, Rabat, Marrakesh). Sul piano della decorazione, si perfezionano l’intaglio dell’avorio e la metallistica.

Palazzo dell'Alhambra, Granada













Strutture con corti centrali, porticati e sale di preghiera caratterizzano l'età dei Fatimidi in Egitto (909-1171) e degli Ayyubidi in Siria ed Egitto (1171-1250). Si sviluppano le madrase (scuole per l’insegnamento del corano) e, negli anni delle guerre contro i Crociati, le fortezze. Ma l'arte islamica conosce il suo splendore più tardi, con i Mamelucchi (1250-1517), che hanno il loro centro artistico al Cairo. Sul piano architettonico si affermano gli ivan (di origine iraniana) e si perfezionano le cupole e i mausolei.

Moschea di Sultan Hasan, Il Cairo

Sul piano decorativo si sviluppano stucchi, intarsi marmorei, intagli lignei con iscrizioni, mosaici in pasta vitrea, metallistica (produzione e decorazione), ceramiche (policrome blu su smalto bianco), tappeti, tessuti e stoffe; la scrittura si fa sempre più decorativa.
Spostiamoci a Occidente. Nell’XI secolo, dall’Asia centrale giungono i turchi, che si stanziano definitivamente in Anatolia. I Selgiuchidi, prima grande dinastia turca, prendono a prestito e sviluppano ulteriormente l’architettura in pietra delle culture armena e georgiana. L’influenza iraniana si intravede nell’uso dei rivestimenti di mattoni smaltati in azzurro e nei motivi floreali e geometrici delle decorazioni. Dei secoli XVI e XVII si ricordano le moschee dalla pianta a T rovesciata e con più ambienti sotto un’unica grande cupola, come sono le moschee di Istanbul, da quella “blu” (o “azzurra”, 1609-1616) a quella di Solimano il Magnifico (1550-1557).

Moschea blu, Istanbul












Il vastissimo impero persiano (comprendente Iran e Asia centrale) conosce il suo periodo di massima espansione e ricchezza nei secoli XIV e XV, con la dinastia dei Timuridi, discendenti di Tamerlano, che porta la capitale dell’impero a Samarcanda, in Uzbekistan. Si afferma il rivestimento in mattone smaltato e predominano le ceramiche azzurre di origine iraniana, nelle facciate e sulle cupole. Dal 1501 al 1732, con la dinastia dei Safavidi, si sviluppano le arti decorative, in particolare quella tessile.

Madrasa di Mir-i-Arab, Bukhara











Nella regione più orientale dell’Islam, l’India, l’arte è una fusione di stili e tradizioni, come quella dell’intaglio del legno. Tuttavia, soprattutto con la dinastia Moghul (1526-1828), l'Islam introduce l’arco a sesto acuto, la cupola, lo sguincio, i motivi decorativi geometrici, l’epigrafia e gli arabeschi. Ma l'aspetto più caratteristico dell’architettura saranno le dimensioni degli edifici e i loro giardini, come nel caso del celebre Taj-Mahal(1632-1654).

Taj-Mahal, India

mercoledì 29 febbraio 2012

Per le strade di Bukhara

Nella testa la melodia suonata dal duduk accende immagini di Bukhara, la città del secolo scorso, dal colore della sabbia con le cupole azzurre.
Sul profilo dell’orizzonte, al tramonto, un bambino vestito di poco, un cellulare in tasca, gioca a pallone con amici improvvisando un campo da calcio negli spazi delimitati dalle mura di antichi bazar e madrase.


Lungo una strada costeggiata di edifici che sembrano macerie, una ragazza siede sui gradini di accesso a un negozio di tè e spezie del XV secolo, con in braccio un bambino, e sorride, con i suoi occhi orientali, placida e cortese al mio passaggio.
Un omaccione si alza da uno sgabello, interrompendo le chiacchiere con un vicino, per rientrare nel gabbiotto da cui serve spezie e frutta secca ai clienti, riempiendone cartocci che poi mette in buste di plastica nera.
All’interno del bazar, al suono di melodie mediorientali, un ragazzo incide con martello e scalpello un piatto di metallo con tortuosi motivi islamici, e donne corpulente in lunghe tuniche litigano tra loro mentre mi gridano di acquistare solo i loro ricami Suzani.
Una bambina riceve istruzioni dalla madre che la spinge verso un gruppo di turisti, un’altra aiuta la propria a sistemare i meloni in vendita direttamente sulla strada.
Due donne sedute al tavolo di un ristoro locale, lungo una strada trafficata di furgoncini Daewoo e biciclette, immergono le dita nel piatto e mangiano il plov, riso e carne.
Un gruppo di ragazzi chiacchiera appena fuori da una madrasa dove si insegna il Corano, e squadra con occhi ostili il turista che, ignaro del divieto, minaccia di entrarvi.
In una madrasa di affari e commerci un uomo siede tra due botteghe a suonare uno straziante strumento a corde, un violino dal suadente lamento.
Una donna alta e grossa dall’intera dentatura dorata mi sorride orgogliosa, gambe non depilate, calzini alle caviglie e piedi nelle ciabatte, e tanti ferri in mano a intrecciare una scarpa di lana.
Dopo il tramonto si spengono tutte le luci, le strade impolverate del quartiere di case di argilla e fango sono abbandonate, restano buie, un labirinto percorribile solo alla luce di una torcia, facendo attenzione a pozzi e buche.
Nella città dove si cammina in ciabatte e i piedi sono impolverati, dove gli sguardi sono pacifici, profondi e di una cordialità sincera, le ragazze non si accompagnano agli uomini, non passeggiano gruppi di giovani. Uomo e donna non si incontrano se non c’è tra loro un matrimonio o la sua promessa. Non si parlano neanche. Tanti bambini evitano la scuola e assistono i genitori nei commerci. Non c’è cura del proprio corpo, né igiene.


Tutto quel colore, quella vita animata, quella frutta generosa accatastata ai bordi delle strade è un’abbondanza per tutti. Le strade trasudano energia, la gente è giovane. La vita è rimasta al secolo scorso, all’ombra delle moschee rivestite di ceramiche di cobalto, lascito di antichi saperi dispersi, di antichi regni costruiti sulla forza e sulla scienza. Al tramonto il sole fa brillare il loro smalto, mentre un carretto passa, tirato da un bambino.

Samarcanda, sulle orme di Tamerlano

Una romantica leggenda narra che Kand, figlia di un re, e Samar, figlio di una famiglia povera, si innamorarono, e che, in memoria del loro amore reso impossibile dal re, che uccise il giovane inducendo la figlia a togliersi la vita, gli abitanti del luogo chiamarono la città Samarcanda…
Sorta 2500 anni fa, Samarqand fu attraversata da Alessandro Magno, occupata dagli arabi musulmani, devastata da Gengis Khan nel XIII secolo per poi risorgere sotto Tamerlano e i suoi discendenti, nel XV secolo. Le glorie e le fortune avverse della città uzbeka si sono alternate nei secoli sino a quando, nel XX secolo, sotto la dominazione russa prima e sovietica dopo, un importante intervento restaurativo ha restituito splendore all’architettura tipica di questa terra, al confine tra cultura islamica e stile sovietico, alle porte d’Oriente.
È una terra di mezzo, oggi in cerca di un’identità propria, divisa nel suo aspetto ora antico ora moderno. Il sapore antico della città è trasmesso dai lasciti di Tamerlano, che, dopo la distruzione voluta dal mongolo Gengis Khan, riconquistò terre e Paesi circostanti per farla risplendere come capitale del più vasto impero islamico della storia, a cavallo tra il XIV e il XV secolo.
I suoi edifici islamici, da madrase e moschee al mausoleo in cui Tamerlano (Timur Lenk, “lo zoppo”) è sepolto, sono rivestiti di ceramica azzurra o smaltata di quel blu cobalto ereditato dalla ricetta iraniana. Gli ori di Samarcanda sono gli azzurri lucenti delle ceramiche che la rivestono, che brillano sotto il raggi del sole al tramonto. Sulle mura degli edifici storici, intarsi di piastrelle policrome raffigurano motivi vegetali, foglie e fiori, o parole nell’antica scrittura cufica.

Piazza Registan

Cuore della città antica e moderna è il Registan, piazza cinta da tre edifici dalle facciate squadrate rivestite di mattonelle policrome, sul solito sfondo azzurro: la madrasa Ulug Beg (XV secolo), lo Sher-Dor e il Tilla Kari (XVII secolo). In questa piazza dal sapore leggendario ci si sente proiettati in un passato dimenticato, appena un vago ricordo di tempi antichi, di civiltà appena sfiorate dalla nostra.
Periferica è invece la necropoli di Shah-i-zinda, cittadella-cimitero che Tamerlano volle edificare per le donne della sua famiglia, su una piccola collina. Salita la scalinata, si apre una strada lastricata, un lungo corridoio, come la via centrale di un borgo, dove le case sono cappelle funerarie dagli ingressi simili a piccole madrase, talvolta sormontate da cupole azzurre. Ancora tornano le maioliche dipinte o intarsiate con motivi islamici, su una base di smalti blu o azzurri.
Importante retaggio della fiorente età di Tamerlano è l’osservatorio astronomico del nipote Ulug Beg, di cui spicca il grande astrolabio sotterraneo. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a una porta magica verso l’avvenire, verso dimensioni sconosciute. Eppure di quel fiorente futuro che sembrava promettere il grande imperatore non resta più nulla. L’Uzbekistan odierno sembra smarrito, diviso tra la gravitazione attorno alla Russia e il recupero di tradizioni islamiche. Samarcanda trasmette anche questo disorientato presente.



Persone dall’aspetto mongolo, visi tondi e occhi scuri a mandorla, e persone dal volto slavo; persone vestite e atteggiate ora alla maniera occidentale ora in stile islamico, con lunghe tuniche, burqa, veli, e poi edifici moderni oppure case malandate dall’aspetto coloniale affacciate su strade polverose percorse da biciclette e carretti. Ora strade dell’aspetto periferico di polvere e sassi, ora contesti più cittadini, di vago gusto europeo, con marciapiedi piastrellati e negozi, come quella che porta dalla moschea di Bibi Hanim al bazar, un mercato vivace e aperto dove si vendono ceste coloratissime di frutta fresca e secca.
Nell’allegro bazar si contratta, si discute, si compra o si rifiutano offerte. E la gente sorride, facendoti sentire parte di questa famiglia multietnica ai confini tra più mondi.