giovedì 29 dicembre 2011

Ibridazioni e incursioni tra le lingue: inglese (cambiamenti inevitabili) e italiano (cambiamenti da evitare)

di Francesca Desiderio

L’inglese, lingua della comunicazione internazionale, è da sempre vittima di un processo di ibridazione, influenzata soprattutto da lingue neolatine e indigene delle ex colonie britanniche d’America, Africa e Asia.
Anche l'italiano, come tutte le lingue, assorbe continuamente dall'esterno, ma spesso a scapito della propria identità, soprattutto quando la fonte dei neologismi e dei nuovi significati è l'inglese.

L'inglese: un po’ di storia
L’anglosassone subì l’influenza del latino, giunto con i missionari cristiani in Britannia alla fine del VI secolo d.C. e presto assorbito come lingua della Chiesa e della cultura. Con l’invasione dei Normanni nell’XI secolo, l’inglese antico cominciò a convivere con il francese, la lingua di corte e dei ceti più alti della società. Sul fronte della grammatica e della sintassi, dal secolo XII al secolo XV l’inglese si allontanò dalle lingue germaniche con la perdita delle forme flesse, le desinenze, il genere maschile e femminile, e con una nuova impostazione della frase secondo il modello Soggetto-Verbo-Oggetto (mentre il tedesco conserva ancora oggi l’ordine Soggetto-Oggetto-Verbo). Nella cosiddetta Golden Age (o età elisabettiana, in cui fiorisce il Rinascimento inglese), a cavallo tra i secoli XVI-XVII, l’inglese acquisì il greco, ancora il latino e l’italiano quale lingua del teatro, della letteratura e della musica. Tempo dopo, cominciarono a fare il loro ingresso anche parole di lingue indigene americane: kayak (dall’Alaska), igloo (dagli Inuit del Canada). Con l’espansione coloniale (dal secolo XVIII al secolo XX), nel vocabolario dell’inglese moderno entrarono parole come boomerang (dall’aborigeno australiano), bungalow e khaki (dall’indiano), safari (dallo swahili parlato in Africa orientale) ecc. esportati poi anche in altre lingue, come l’italiano.
Se nel XVIII secolo il francese aveva rimpiazzato il latino nella comunicazione scientifica e diplomatica internazionale, nel XX secolo, grazie alla sua espansione mondiale, l’inglese è diventato la nuova lingua franca.

L’inglese subirà un imbarbarimento?
Oggi, si sa, il lessico inglese è influenzato sempre più dai traguardi tecnologici, soprattutto informatici, e dal primato economico degli Stati Uniti nel mondo (almeno fino alla crisi di inizio millennio); per questo l’ortografia americana è preferita a quella inglese (color, center e neighbor al posto di colour, centre e neighbour, per esempio). Tuttavia, quello che fa cambiare l’inglese oggi, e non tanto dal punto di vista lessicale quanto soprattutto da quello sintattico, è la sua stessa diffusione, il fatto che sia parlato ovunque e da chiunque nel mondo: l’inglese “internazionale”, quello parlato dai non-nativi, non aderisce a tutti i canoni del perfetto British English: all’estero può capitare di sentire domande prive degli ausiliari do/does o formulate come fossero affermazioni, con la sola intonazione della voce, oppure con le question tags o same-way questions (il verbo ausiliare ripetuto alla fine della frase e seguito dal soggetto della frase: they join us, don’t they?so you’re going to marry, are you?); l’ora non si legge più come insegnatoci a scuola, con past e to, ma leggendo i numeri in successione (a quarter to five è per tutti four fourty-five); le varie sfumature tra i tempi verbali si perdono nel momento in cui le forme semplici del presente, del passato o del futuro rimpiazzano le forme perfette o progressive (they know each other for years al posto di they have known each other for years).
Per l’inglese, quindi, il vantaggio di essere parlato in tutto il mondo ha come contraltare lo svantaggio di essere preda di modifiche e incursioni. Può darsi che con la maggiore frequenza d’uso certe imprecisioni prima o poi si diffonderanno nell’inglese nativo, sino a modificarlo, favorite anche dalle nuove tecnologie (cellulari e computer) che inducono a semplificare la comunicazione.

L’italiano imbarbarito
L’inglese influisce a sua volta sulle altre lingue, soprattutto perché lo sviluppo scientifico-tecnologico e i neologismi necessari a esprimerlo sono figli di un mondo dove si parla inglese, così come il lessico musicale è in gran parte figlio della cultura italiana. Ma se alcuni popoli si sforzano di salvaguardare la propria identità linguistica traducendo tutto (i francesi usano matériel e logiciel al posto di hardware e software), ce ne sono altri che assorbono tutto, senza cognizione di causa e senza discernere, come gli italiani.
Non mi riferisco tanto a neologismi pseudo-informatici eclatanti (forwardare, chattare, bannare ecc.), quasi inevitabili, né alle parole che usiamo quotidianamente nella versione inglese (ticket, slide, magazine), nonostante in italiano esistano i corrispettivi. C’è un processo più subdolo e pericoloso che fa perdere all’italiano la propria identità, e cioè le traduzioni errate – o di comodo - di termini ed espressioni inglesi. Prendiamo per esempio to support, state of the art, to approach, to abuse, alarmed, to schedule. In italiano si sono diffusi usi mai visti prima: “supportare” con il significato di sostenere moralmente, aiutare, avallare; “stato dell’arte” con il significato di avanzamento di un lavoro o una conoscenza, avanguardia; “approcciare” con il significato di avvicinare, tentare un approccio; “abusare” in forma passiva o con il significato di “maltrattare” (il bambino è stato abusato, una donna abusata) quando per le regole della nostra grammatica abusare è seguito da “di + sostantivo” (abusare di alcol) e “abusato” vuol dire logoro, troppo usato; “allarmato” con il significato di “essere munito di allarme” (per esempio: il bancomat allarmato), mentre in italiano significa “spaventato”, “messo in allarme”; “schedulare” con il significato di “programmare”.
E poi, usi sempre più frequenti di: “esaustivo” (dall’inglese exhaustive), quando in italiano l’uso ha sempre favorito “esauriente”; il sostantivo plurale “nutrienti” (da nutrients), che però in italiano è un participio presente con valore di aggettivo, per quanto oggi sia usato al posto di “elementi nutritivi”; “processare” un’informazione (da to process), quando nell’italiano corretto si dice “elaborare” un dato o un’informazione; “realizzare” (da to realize) usato impropriamente con il significato di “rendersi conto”.
Ancora, nel giornalismo televisivo e della carta stampata il complemento di specificazione plurale determina l’accordo del verbo nonostante il soggetto sia singolare: “la maggior parte degli intervistati hanno risposto”; “il 70% delle persone sono soddisfatte”, come in inglese (mentre in italiano corretto si dice “la maggior parte delle persone ha risposto”, “il 70% delle persone è soddisfatta”).
Molti italiani ricalcano espressioni inglesi credendolo necessario per adeguarsi ai tempi, senza sapere che nella nostra lingua esistono già espressioni adeguate a tradurli. L’adozione è spesso frutto della sola ignoranza, che conferisce dignità a parole o espressioni mal tradotte, non di ragionevolezza. Sia chiaro, i cambiamenti non si possono evitare, ci saranno in ogni tempo e in ogni lingua. Tuttavia, potevamo risparmiarci questi e molti altri casi, inesistenti fino a 15-20 anni fa, promuovendo traduzioni più competenti, bocciando giornalisti poco preparati e non avallando neologismi come quelli citati attraverso la loro pubblicazione sui nuovi dizionari.

Highlands scozzesi

di Francesca Desiderio

Se, lasciando dietro di te gli ultimi agglomerati urbani attorno a Inverness, seguirai la motorway che si trasforma in un lungo ponte panoramico tra scenari continentali e terre nordiche, comincerai a sentir pulsare il cuore delle Highlands scozzesi.



Farai tappa a Dornoch, sabbia delle spiagge selvagge e cielo dai colori spenti e minacciosi di un deserto sconfinato di freddo, e ti inoltrerai nelle loro antiche terre oggi disabitate. Profili morbidi, a perdita d’occhio, ricoperti di un verde compatto rotto qua e là da rettangoli di pietre, tutto quel che resta del suo popolo, e piccoli laghi come fossero cave. La strada si restringerà e si farà più acciottolata, passing places ti permetteranno di non temere l’incrocio con altre macchine, episodio assai raro. La strada che sale verso nord non finirà mai, l’auto rallenterà la sua corsa su quella difficile strada e ti chiederai quale confine sperduto di terra stai mai raggiungendo; avrai timore di quell’ignoto per qualche attimo, perché segnali non ce ne saranno, né anima umana, né casa ad alleviare quella solitudine. Finché poche svolte alla tua direzione ti condurranno dove finisce la terra e comincia il mare.
In quegli ultimi lembi collinosi, scavati da un mare freddo che ne penetra per centinaia di metri le alture, vedrai i primi fiordi. E ti dovrai fermare. C’è una bellezza che non ti aspetti, lassù, capace di calamitarti e ipnotizzarti. Mi sono fermata dove la strada mi mostrava Loch Eriboll, senza più respirare davanti al luccichìo della superficie del mare calmo come un lago, stretto tra due lunghe braccia di alture verdi, che circondava, giù in basso, una penisola verde, unita alla terra da uno stretto corridoio di terra.



Tornato a ripercorrere la strada, raggiungerai Durness. Le pecore che pascolano sulla spiaggia si allontaneranno sorprese dalla presenza di un uomo, e colpito dal vento freddo ti avvierai sulla spiaggia ampia, dove roccioni neri alti un paio di metri sono lasciati a secco dalla marea bassa. La luce del sole, nell’assenza di nuvole, renderà il mare smeraldino prima del suo blu abissale, che volge dritto verso il Polo Nord. Quello che dalla strada ti parrà adeguato alle tue proporzioni fisiche, ti avvolgerà con la sua potenza, e ti accorgerai di essere polvere. Parteciperai a tanto splendore e te ne lascerai schiacciare, lo respirerai, lo abbraccerai solo con gli occhi perché ti resti impresso, per non lasciarlo lassù, dimenticato.
Il giorno dopo, sotto nuvoloni grigiastri, il ricordo dei colori marini ti sembrerà un fugace regalo del sole, una fortunata coincidenza nel breve spazio della tua visita, in questo luogo senza tempo.