giovedì 26 maggio 2011

Amman e Petra. Giordania tra presente e passato

di Francesca Desiderio

Dalle alte quote dell’aereo in volo il panorama abbraccia una distesa di appezzamenti sabbiosi, solcati da strade lunghissime, come linee rette. I vapori che esala il deserto velano l’aria, la ispessiscono visibilmente. Una volta atterrati ad Amman, la luce, stancante, ammalia; la calura intontisce e incanta, favorita dalla litania del muezzin, che richiama ovunque alle preghiere quotidiane. “Welcome in Jordan!”, qualcuno ti dirà.
L’architettura urbana di Amman “la bianca” è sregolata e grezza: palazzi monoformi, parallelepipedi o cubi in pietra bianco-grigia, talvolta parzialmente crollati o solo non completati, come fossero caduti sotto i bombardamenti. Alta, sopra le case, sventola una bandiera nazionale lunga circa quaranta metri, collocata entro le mura del palazzo reale. Strade trafficate, disordinate e brulicanti di vite mediorientali indaffarate nei commerci.
Figure minute di ragazze sono avvolte con sensualità in magliette coprenti e aderenti, e indossano jeans e scarpe all star secondo la moda occidentale; signore più mature, o forse solo sposate, si muovono sicure sotto lunghe tuniche, ma altrettanto sensuali, velo in testa, testa alta. Lo sguardo maschile è discreto, nonostante i miei capelli e le mie braccia siano scoperti. Un negoziante mi offre gratuitamente una bottiglia di acqua; un tassista mi chiede meno del previsto per ricondurmi in albergo: l’accoglienza giordana è di una disponibilità inaspettata, semplice e garbata.
La città bassa è il cuore pulsante di Amman: il fulcro è la moschea al-Hussein bin-Talal, dall’ingresso vietato agli “infedeli” e il minareto aguzzo; il teatro romano vicino, centro dell’antica Philadelphia, è pressoché intatto, contrariamente alle vestigia del Tempio di Ercole, della Basilica bizantina e del Palazzo degli Omayyadi sulla cittadella. Da questa piccola altura si può cogliere Amman “la bianca” in tutta la sua estensione, adagiata su rilievi polverosi e arsi da un generoso sole.
Fuori dal passato, trovo maggior agio nei suoni e nelle voci di un centro trafficatissimo, tra auto e passanti, attraversato da una strada principale su cui si affacciano in stretta successione negozi di abbigliamento, calzature e biancheria, che espongono sfacciatamente la mercanzia su metà dei marciapiedi. In una via defilata, al lato della moschea, si addensano persone; le seguo e mi inoltro in un mercato colorato di frutta e verdura: tante piramidi di ogni bene prodotto dalla terra, banchi generosi e traboccanti, e venditori che chiamano, urlano, maneggiano le merci con velocità e destrezza.

Lontano dal centro, lungo reticolati stradali recenti ma pur sempre polverosi e percorsi da autisti audaci, si costruiscono quartieri nuovi, ville alla moda ritenute di gran lusso dagli abitanti della città. Di sera, anche le luci della nuova Amman offrono la vista di una città moderna, soprattutto nelle architetture degli hotel di lusso frequentati da turisti stranieri o grandi petrolieri. Lo scarto con l’assenza di colore e la fatiscenza diurna è però eccessivo; la ricchezza è solo un’illusione.
La quotidianità poco idilliaca, tuttavia, non spegne la spiritualità di questo paese e della sua gente, spiritualità che si avverte come un’esigenza, si respira per le strade, si percepisce nei gesti e negli sguardi, fa accettare tutto con il sorriso e senza ansie, e non si lega ad alcuna religione particolare. “Inshallah”, “se Dio vuole”, è la risposta agli inviti, alle proposte, e racchiude in sé tutta la pazienza con cui si accetta il trascorrere del tempo, il susseguirsi eterno di vita e morte. A pochi chilometri da Amman, sul confine con Israele, sorgono luoghi di biblica memoria, si contemplano orizzonti sul lago di Tiberiade, sul Giordano, dal Monte Nebo. In questa atmosfera di calma pacifica, i confini con Siria e Israele a un passo dai rilievi giordani si direbbero facilmente valicabili, e non si avverte la tensione militare dell’intera area geografica.
Lungo le strade che attraversano la Giordania da nord a sud, la foschia dei caldi vapori desertici vela un orizzonte di rilievi corrosi dall’arsura, canyon e roccia pronta a sgretolarsi in ciottoli. Sulle colline attorno ai centri abitati e alle città minori si respirano profumi mediterranei di ulivi, ma la Giordania è in larga parte terra di sabbie. A sud, in particolare, dove la luce ha un’intensità capace di ferire gli occhi, la sabbia è ruggine e il tempo è assente. Gli antichi graffiti rupestri nel deserto dello Wadi Rum sono attuali quanto me. A distanza, le guide locali in tunica bianca mi aspettano annoiate, con le braccia conserte, appoggiate alle gobbe dei loro cammelli.
Tutto prelude a Petra, la storica capitale dei Nabatei, in una valle arida di Giordania al centro di antiche vie commerciali tra il Mediterraneo e l’Iran, tra l’Arabia e la Siria. Sono resti rocciosi di una grande città scavata nei rilievi di arenaria spaccatisi per effetto di terremoti, tanto da formare gole profonde, spesso strette e labirintiche, verso il confine con Israele. È il volto più noto della Giordania, per quanto il presente di questo paese nulla condivida con questo passato.
Per accedere alla città nabatea, capitale del regno sorto intorno al IV secolo a.C., i suoi prudenti fondatori vollero che il visitatore scendesse tra pareti di roccia, il Siq, passaggio stretto che ne proteggeva i tesori. Al termine della gola, quando la curiosità è al suo culmine, una luce accecante fende improvvisamente l’ombra della gola e svela il primo “tesoro” di pietra: il Khaznat (Tesoro), la cui facciata lascia pensare a un tempio o a un palazzo reale. È la tomba di un re nabateo del I secolo d.C. scolpita nella roccia: è una celebrazione dell’arte della scultura, nell’ispirazione egizio-greco-romana della sua architettura.
Il passaggio attraverso un’altra breve gola consente di penetrare nel cuore dell’antica città, gelosamente custodita in una vallata. Si susseguono architetture di un vecchio centro urbano, palazzi e tombe ricavati dalle montagne dove oggi trovano rifugio venditori ambulanti o nomadi. Sono facciate imponenti, di tombe eminenti. La luce si rifrange sulla roccia esaltandone la grandiosità, accendendone i rossi dell’arenaria.
Alla sinistra del percorso polveroso, ai piedi del monte Nejr, mi sorprendono i resti di un grande anfiteatro romano del II secolo d.C., che ancora testimonia la mistione tra tutte le culture che hanno attraversato questa regione di scambi tra Oriente e Occidente.
Cave ora scavate dall’uomo, ora naturali prodotte dall’azione di vento e acqua, svelano colori ipnotici; le rocce multistrato vanno dall’ocra al blu, e al variare della luce cambiano tonalità, come in un caleidoscopio creato ad arte.
Giovani giordani offrono ai turisti un passaggio sui loro animali, spesso maltrattandoli per incalzarli alla corsa polverosa tra rovine che non degnano più di uno sguardo.
Poco più avanti, sulla destra, una scala nella roccia conduce alla Tomba dell’Urna, la prima delle tre Tombe Reali, edificio appartato, adibito a chiesa nel V secolo d.C., con uno spiazzo-sagrato che si affaccia, dall’alto, sull’intero percorso che dalla necropoli porta al cuore della città.

Su una piccola collina poco oltre, restano rovine di una chiesa bizantine: tracce di colonne e uno splendido pavimento mosaicato. Una composizione quasi perfetta, seppur sbiadita dal tempo, sopravvissuta alla luce tanto intensa e alle sferzate sabbiose del deserto.
Raggiungo il Foro, con i suoi templi e il colonnato che lo delinea, a meglio definire spazi esposti alla violenza distruttiva del tempo. Al termine della strada centrale, delimitano il Foro le vestigia di un massiccio portone in pietra. Lo supero e mi volto per dare ancora uno sguardo alla città scavata nella roccia, in lontananza.
La strada torna a inerpicarsi sulla montagna, passando per strette gole. Affronto mille gradini come un pellegrino penitente verso l’ultimo luogo sacro della valle, l’altopiano dove finisce la città: il Deir (Monastero). Così è chiamato quel che in realtà fu un tempio. Facciata imponente, nuovamente ricavata dalla roccia, nel medesimo stile greco-romano che caratterizza il Tesoro. La facciata guarda a Ovest, in direzione di Israele, a Sud si scorge la cima su cui è posta la tomba di Aronne, a Nord la Piccola Petra, caravanserraglio costruito ancora nella roccia. Gole e rocce sembrano cumuli di sabbia bagnata, smussate e arrotondate dal tempo.
In questa gola dove la luce gioca coi colori via via che il sole si alza o tramonta, si perdono le coordinate del luogo, e si respirano sabbia e aria sacra di una dimensione remota, persa nel tempo.

La main de Dieu

di Francesca Desiderio



Titolo: La main de Dieu (La mano di Dio)
Autrice: Yasmine Char
Editore: Gallimard, Parigi
Anno di pubblicazione: 2008
Formato: cm 11x17,8 brossura
Pagine: 122
Lingua: francese

Il libro racconta che cosa abbia significato per una ragazza di quindici anni nascere e crescere in Libano, nella Beirut bombardata tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, con genitori di diversa cultura e in una famiglia dalle tradizioni islamiche, nella precarietà dei giorni.
Studentessa di un liceo francese della città, la protagonista, di padre libanese e madre francese, vive al riparo dalle pressioni dei parenti islamici grazie alla sensibilità e alla comprensione del padre. L’uomo non è capito dalla propria famiglia d’origine, che lo accusa di scelte sentimentali ardite, ovvero l’amore incondizionato e rispettoso per una donna occidentale - la quale, però, lo abbandona - e per la figlia, che lascia libera di vivere secondo i suoi istinti, anche contro i costumi locali. La ragazza, mai nominata nel testo, sembra vivere un forte smarrimento interiore, lacerata com’è dall’incontro-scontro tra due culture, e in terra mediorientale sceglie di vestirsi come un ragazzo, portare capelli corti, pantaloni militari, niente velo né condizionamenti, e di preparasi alla guerra allenandosi con gli amici.
Il disagio è acuito dalla quotidianità della guerra, che trasforma la sua esistenza in uno stato di continua allerta e fughe dal pericolo delle bombe, sino alla perdita definitiva di ogni speranza e, per assurdo, alla ricerca di quel “franco tiratore” che metta fine alla sua vita. Il peso dei giorni sembra alleggerirsi quando la ragazza scopre l’amore nell’incontro casuale con un uomo che si presenta come un corrispondente di guerra francese, e al quale si concede senza remore né timori, indifferente all’obbligo della verginità, che nella Beirut islamica segna la demarcazione netta tra ragazze rispettabili e ragazze senza onore. Nella periferia dai palazzi semidistrutti e crivellati di colpi di Beirut, la giovane trova una ragione per vivere.
Continua a frequentare il campo profughi palestinese, mentre il suo amante la addestra alla guerra, a sparare. Il tempo resta sospeso, nella consapevolezza che tutto può accadere, anche la morte, senza alcun preavviso.
Mentre i libanesi lasciano la propria terra per cercar riparo nel resto del mondo, il padre della ragazza non vuole abbandonarla, nella speranza di far tornare a sé la moglie. La protagonista, invece, non trova un motivo per restare a vivere in quei luoghi di sofferenza, tra parenti ostili che non ne comprendono la voglia di libertà, ma non può partire senza il padre; asseconda così la richiesta del compagno di uccidere per lui. Per amore si ritrova quindi coinvolta in una sparatoria da cui fugge miracolosamente illesa, per scoprire che il suo uomo non è un corrispondente di guerra, bensì quel franco tiratore padrone dei suoi giorni, colui che rendeva precarie le vite dei suoi amici e dei suoi cari. Avutolo per caso sotto il tiro di fucile, lo uccide, per poi andarsene senza lasciare traccia di sé.
Due mesi dopo la morte del padre per malattia, morirà anche l’amata nonna della giovane, altro suo modello di libertà ed emancipazione. Tempo dopo, la giovane lascerà il paese e osserverà lo svolgersi degli eventi in Libano da un collegio femminile in Svizzera, come avrebbe voluto il padre.

Valutazione critica
Yasmine Char, autrice nata in Libano da padre libanese e madre francese, e attualmente residente in Svizzera, pare ispirarsi fortemente alla propria esperienza personale per raccontare la giovanissima protagonista del libro. La ragazza, al momento della narrazione quindicenne, per ben sette anni della propria vita non conosce che la guerra, vivendo in condizioni precarie, nell’assenza di elettricità, acqua, benzina, telefono, occupando case vuote, come tutti fanno.
L’autrice costruisce l’intreccio senza curarsi di riportare gli eventi in ordine cronologico, ora in prima ora in terza persona. Del resto, non è necessaria una sequenza temporale logica per ricostruire il percorso interiore della giovane, per capire il suo disincanto, la sua disperazione. Il racconto, semplice e crudo, restituisce al lettore la realtà di un paese in guerra senza esitazioni né ombre.
Dalla narrazione si evince il duplice significato del titolo. La “mano di Dio” è, all’inizio, l’intervento divino che dona alla ragazza l’amore, attraverso l’incontro con un uomo cresciuto al di fuori del contesto di morte e precarietà. In seguito, “la mano di Dio” diventa la mano della ragazza stessa, quando, dopo il massacro di alcuni rifugiati palestinesi suoi amici, la giovane perde ogni fede e si sostituisce a quel Dio assente, uccidendo senza ripensamenti né rimorsi il suo amore, responsabile di tanto sangue versato.
Al termine di questa asciutta ma incalzante narrazione, la ragazza, ormai adulta e lontana da Beirut, spiega così il motivo di quel “viso da assassina” che tanto le pesa addosso, come affermato in apertura del libro. Un volto scavato dall’amarezza e dalla disillusione.

Traduzione della quarta di copertina
Si parla di una ragazzina di quindici anni che corre lungo una linea di demarcazione. Si parla del Libano, paese in guerra da così tanto tempo che a volte ci si dimentica che la guerra sia ancora là. E, infine, si parla di amore in un contesto di guerra. L’amore della ragazzina, puro come un diamante, per il padre, per l’amante, per la patria. Grande assente è la madre, che non sa nulla di questo amore. Se n’è andata senza lasciare traccia.
La ragazzina cresce del tutto smarrita in quei luoghi, divisa tra due culture, travolta dalla violenza.
Così, corre.
È la storia di una ragazza dal vestito verde che volteggia tra le rovine, che si butta tra le braccia di uno straniero, che maneggia armi come respira. È la storia di un’adolescente, che cade ma si rialza sempre.

martedì 24 maggio 2011

L'Arte secondo Rodin

di Alessia Delcré

“L’Arte è contemplazione. È il piacere dello spirito che penetra la natura e che v’intuisce lo spirito da cui essa è animata. È la gioia dell’intelligenza che vede chiaro nell’universo e lo ricrea illuminandolo di coscienza. L’Arte è la più sublime missione dell’uomo, poiché è l’esercizio del pensiero che tenta di capire il mondo e di farlo capire”. (1)

Auguste Rodin non è stato solo un grande artista, ma un profondo conoscitore dell’animo umano e un appassionato studioso di storia dell’arte, di cui ammirava in particolar modo i Classici e Michelangelo.
Convinto che la natura, in quanto maestra suprema, andasse contemplata e imitata (alla maniera dei Classici), rifuggiva però da una fredda copia del reale per impregnarlo delle emozioni, dello spirito e di quel bagaglio di esperienze che ogni individuo porta con sé. Ogni suo soggetto scultoreo, ritratto in un preciso effetto di movimento, non è solo il frutto di uno studio anatomico minuzioso, ma è animato da un pathos che lo fa vibrare, supera la materia e diviene portavoce di un messaggio universale. È una visione spesso tragica, come se lo spirito soffrisse incatenato al corpo che lo trattiene. Si genera quindi nell’osservatore uno strano disagio nel percepire una dicotomia tra la forza dei personaggi e una posa di inquietudine o malessere, specchio della loro reale condizione. Così succede ad esempio per i Borghesi di Calais, gruppo scultoreo che mette in scena la motivazione sofferta di sei uomini che avanzano inesorabilmente verso un destino tragico di auto-sacrificio. Per Il Pensatore, il cui corpo atletico e forte è contratto e schiacciato dallo sforzo del pensiero, non libero di abbracciare l’assoluto. Per lo stesso Bacio, raffigurazione dolce e romantica, in cui la frenesia dei corpi esprime l’ansietà di un’unione eterna impossibile.


Borghesi di Calais di Auguste Rodin (1884-1886)












L’arte è per Rodin “il bello”, includendo in questo concetto ogni cosa che susciti un sentimento. Non solo le figure aggraziate e gioiose sono quindi fonte d’ispirazione, ma anche quelle che evocano bruttezza, dolore, tragicità: tutto ciò che si trova in natura può diventare oggetto di rappresentazione, se l’artista vi coglie del “carattere”. Questo è, secondo Rodin, “la verità profonda di uno spettacolo qualsiasi, bello o brutto che sia. [...] È l’anima, il sentimento, l’idea, che esprimono i tratti di un essere umano.”
“È soltanto la potenza del carattere che fa la bellezza dell’Arte” afferma quindi l’artista; al contrario “è brutto in Arte quel che è falso, quel che è artificiale, quel che cerca di essere grazioso o bello invece di essere espressivo, [...] tutto quel che è senz’anima e senza verità, tutto quel che è solo sfoggio di bellezza o di grazia, tutto quel che mente”. (2)
Una rappresentazione significativa ne è la scultura La bella Elmiera.
L’artista è stato spesso accusato a suo tempo di “trasfigurare la natura”, di non creare raffigurazioni reali. Il suo Balzac, commissionato dalla Société des Gens de Lettres, è stato infatti rifiutato da quest’ultima in quanto non conforme agli stili accademici. Eppure Rodin si è sempre difeso asserendo di essere lui stesso un sostenitore della verità in arte.
Tale malinteso di fondo, causa di un’errata considerazione delle sue opere da parte dei contemporanei, risiede proprio nella definizione, o meglio nell’interpretazione, della “verità”. Se i realisti ritenevano che la copia dal vero dovesse riprodurre fedelmente un modello, senza lasciar trapelare nessun fremito dei muscoli, nessun moto dell’animo, insomma alcun sentimento, Rodin era di parere opposto. La sua “verità” nell’arte aveva invece come fine ultimo la ricerca dello spirito. Poco importava se un dettaglio di superficie non risultasse copia esatta del modello. L’importante era per lui l’effetto d’insieme, e questo doveva comunicare la densità di una vita che abita un corpo e che attraverso esso esprime i suoi stati più intimi.

Influenze di Camille Claudel (3)
Camille Claudel, artista precoce e tenace ma dalla personalità molto controversa, lavorò come allieva di Auguste Rodin nel suo primo periodo di pratica scultorea, attività che lei adorava e perseguiva con una costanza e una testardaggine molto singolari. In quanto allieva, studiò e si operò a imitare al meglio lo stile del maestro, occupandosi anche della modellazione di alcuni particolari anatomici delle sculture di Rodin (mani e piedi), come si usava fare in tali apprendistati. La condivisione del mestiere andò però oltre, perché Rodin vi scoprì subito quel genio e quell’entusiasmo che lo portarono a riversare su di lei tutte le sue attenzioni, e ben presto anche un’intensa passione.
L’affinità artistica e sentimentale li vide lavorare insieme a più parti delle figure: la mano di Camille si confuse con quella di Rodin in alcune sculture, fino addirittura a creare opere - come Tête de rieur (Testa che ride) - che recano la firma di entrambi.
In questo primo periodo della loro frequentazione, i due artisti diedero prova di un’energia creativa sorprendente, che si alimentava l’uno dall’altra. Rodin introdusse il tema della coppia e della figura femminile, con tematiche fortemente sensuali in L’eterna primavera e La Danaide.
In altre occasioni le opere di Camille vennero riprese da Rodin nella gestualità e nei sentimenti rappresentati.
La coppia della giovane artista Sacountala, ad esempio, raffigura l’abbraccio di ricongiunzione tra due sposi dopo una lunga separazione provocata da un maleficio. Ne traspare quindi uno scambio di suppliche e di perdono: l’uomo implora la donna in ginocchio e la abbraccia. Molte sono le analogie con il noto L’idolo eterno di Rodin, successivo.


Sacountala di Camille Claudel, in marmo ribattezzata
Vertumne et Pomone
(1886)
e L'idolo eterno di Auguste Rodin (1888)










Lo scultore, già avanti con gli anni, trovò in questa allieva una forte condivisione di passioni: artistiche, intellettuali e sentimentali. Non vi è paragone con il tiepido rapporto che intrattenne con Rose Beuret, conosciuta vent’anni prima, e con la quale convisse fino alla fine della sua vita. Rose era di fatto colei che si occupava del ménage famigliare e che manteneva in ordine l’atelier dello scultore. Nonostante godesse di una considerazione molto più spiccata, la giovane Camille non si mostrò mai soddisfatta di questa relazione ambigua e insistette a lungo inutilmente per ottenere l’esclusività del rapporto d’amore. A un primo periodo di unione forte e idilliaca, seguirono quindi feroci critiche e litigi che portarono Camille all’allontanamento sofferto ma definitivo da Rodin.
Nelle ultime opere Rodin mostrò di essere ancora legato all’immagine di Camille, raffigurata come fragile creatura che emerge dal marmo in L’addio.
Camille ci ha lasciato l'opera a tre figure L’âge mûr (La maturità), in cui un anziano Rodin viene allontanato dalla personificazione della vecchiaia, mentre la giovane artista cerca di trattenerlo implorante.



NOTE E RIF. BIBL:
(1) Auguste Rodin, L’Arte. Conversazioni raccolte da Paul Gsell, a cura di Luca Quattrocchi, Abscondita, 2003 (cit. pag. 10)
(2) vedi nota 1 (cit. pag. 30)
(3) Tematiche tratte dal testo di Hélène Pinet e Reine-Marie Paris, Camille Claudel. Le génie est comme un miroir, Gallimard, Parigi, 2003

mercoledì 18 maggio 2011

Camille Claudel. Le génie est comme un miroir

di Alessia Delcré



Titolo: Camille Claudel
Sottotitolo: Le génie est comme un miroir (Il genio è come uno specchio)
Autrici: Hélène Pinet, Reine-Marie Paris
Editore: Gallimard, Parigi
Anno di pubblicazione: 2003
Formato: cm 12,5x18 brossura
Pagine: 128
Illustrazioni a colori
Lingua: francese









Camille Claudel è una scultrice vissuta a cavallo tra il 1800 e il 1900, allieva e amante di Auguste Rodin, ma soprattutto donna dalla forte e contrastata personalità, che a dispetto del suo talento ha trascorso gli ultimi trent’anni di vita rinchiusa in una casa di cura per malattie mentali.
Il libro percorre tutte le tappe di crescita artistica e personale della scultrice: dall’infanzia contrastata da una madre che non accetta la vocazione artistica della figlia, al veloce e istintivo apprendimento del mestiere, alla pratica quasi morbosa in atelier, alle esposizioni, agli estenuanti ma vani tentativi di emergere in ambito artistico. È un percorso di vita difficile, accidentato, passionale e tragico, sempre in lotta con la disapprovazione di una società troppo conservatrice, i radi e complessi rapporti affettivi e le continue ristrettezze economiche.
Le fila del racconto sono tratte da documenti, lettere, articoli giornalistici, archivi fotografici e dépliant di mostre conservati o pazientemente raccolti dalle autrici, in particolare su volontà di Reine-Marie Paris, pronipote dell’artista, che ha voluto offuscare l’emblema della pazzia a favore della genialità.
Camille resta comunque una donna difficile, a tal punto devota alla propria arte da privarsi di una vita sociale, condizione che la porta irrefrenabilmente verso quel baratro di solitudine e di follia degli ultimi anni della sua esistenza. Un ritratto significativo che emerge dalle pagine del libro è quello della giornalista Gabrielle Logerot: “La signorina Claudel ha occhi magnifici, di un verde pallido, che evocano i freschi germogli delle foreste. [...] Ma nello stesso momento in cui il loro sguardo vi attira, un gesto istintivo dell’artista sembra bloccare lo slancio della sua simpatia, e si resta con questa impressione strana di una natura profondamente personale, che vi attira per la sua grazia e vi respinge per la sua ferocia”.
Camille Claudel alla fine era questo: una donna molto graziosa, sicura di sé e pronta a tutto pur di esprimersi nell’arte scultorea - di cui ha lasciato magnifiche opere rivalutate come geniali solo dopo la sua morte - ma anche una personalità scontrosa, rigida e avara negli affetti.
Il rapporto con Auguste Rodin, spesso evocato e testimoniato nelle pagine del libro, è fonte di gioia, di profonda ispirazione artistica e di passione reciproca in un primo periodo, ma la continua indecisione di Rodin, che frequenta anche un’altra donna (Rose) allontana infine Camille, che si chiude per sempre in se stessa e nel suo mondo di angosce.
Il secondo personaggio profondamente legato alla sua figura è il fratello Paul, dotato di grande talento per la scrittura, a cui preferisce però una vita agiata e concreta, in contrapposizione a quella sognatrice e di stenti della sorella. È lui che le sta vicino nei momenti più difficili e la incoraggia, che condivide le sue aspirazioni e i suoi tormenti, ma che alla fine la conduce in una casa di cura per malattie mentali, rassegnandosi al decadimento psichico di Camille e al suo “fallimento umano e professionale”.
La genialità artistica è sempre definita da Paul con una grande amarezza e una certa repulsione, come in questa citazione in apertura del libro: “Il genio è come uno specchio, di cui un lato riceve la luce e l’altro è rugoso e arrugginito”.

Valutazione critica
La ricchezza di documenti - tra cui lettere, articoli giornalistici, ritratti di Camille resi da personaggi illustri in ambito artistico e letterario - e le numerose fotografie d’epoca della scultrice e della sua cerchia relazionale (famigliari, amici, sostenitori...) ricostruiscono sapientemente il contesto storico e culturale di fine Ottocento nel quale si inserisce la coraggiosa artista. Camille, infatti, affronta seri ostacoli di carattere sociale (la difficoltà ad accettare un grande talento artistico in una donna per lo più molto giovane) e quindi economico (la sovvenzione e la vendita delle opere). La trattazione si snoda lungo le pagine del libro proprio grazie alla presentazione documentaristica, per cui è il lettore a “ricostruire” il ritratto artistico, psicologico e relazionale della scultrice. Tale impostazione è molto stimolante e lo stile, che a volte sembrerebbe scivolare nel racconto cronistico, si intreccia abilmente con profonde analisi caratteriali e intime.
È una lettura significativa per avvicinarsi a un’artista ai più sconosciuta (il suo nome resta troppo spesso legato al grande Rodin), per capire il suo difficile percorso di vita ma soprattutto per conoscere le sue opere. Il testo ne propone infatti un ricco repertorio fotografico, corredato di spiegazioni e commenti spesso rilasciati dai personaggi dell’epoca.
Il libro si rivela anche un utile strumento di comparazione artistica con Rodin, maestro, amante e infine sostenitore respinto e odiato da Camille. Una lettura laterale mostra infatti come gli stili dei due scultori si intreccino fino a fondersi nel primo periodo produttivo di Camille, per poi distaccarsi completamente (distacco che coincide anche con la rottura definitiva del rapporto amoroso tra i due) per consolidare in Camille uno stile prettamente personale e unico, quello delle opere che oggi meglio la rappresentano. Tale lettura è infine valida anche ai fini di uno studio più approfondito della produzione artistica di Rodin, alla luce di retroscena sentimentali che meglio spiegano ed evidenziano scelte tematiche e creazioni spesso nate grazie a profonde affinità affettive.

Traduzione della quarta di copertina
Dalla personificazione dell’artista maledetta al riconoscimento del suo genio, Camille Claudel è stata oggetto, a partire dagli anni Ottanta, di una acceso dibattito volto a riabilitatare la sua figura. Sappiamo quanto le sue prime opere abbiano impressionato Auguste Rodin, che ne fece sua allieva, ispiratrice e amante. Sappiamo come questa donna, dilaniata tra il sogno di un amore corrisposto e quello della scultura, sia scivolata verso la follia e sia stata internata. Al di là di queste vicissitudini che ne fanno un personaggio romanzesco, questo libro restituisce la vita e l’opera dell’artista al contesto della sua epoca.
Ricordando com’era allora difficile essere donna e scultrice; come, con il fratello Paul, introdotto nei circoli letterari, Camille fosse molto vicina a un filone dell’avanguardia parigina; come si liberò dell’influenza di Rodin per realizzare, fino al 1905, le sue opere più creative: La valse (Il valzer), L’âge mûr (La maturità), La vague (L’onda). Come infine, in preda a un delirio di persecuzione e in mancanza degli autentici riconoscimenti a cui aspirava, Camille si fosse isolata poco a poco dalla scena artistica, arrivando anche a distruggere le proprie opere...

Dai luoghi della sua infanzia al vecchio edificio sul lungosenna Bourbon, dal suo primo atelier parigino alla casa di cura di Montdevergues, dai suoi legami tumultuosi con Rodin ai dissidi con i suoi fornitori, dall’universo famigliare alle sue fughe in Inghilterra... più di 150 documenti per rivivere la vocazione inestinguibile di Camille Claudel: scolpire.