giovedì 26 maggio 2011

La main de Dieu

di Francesca Desiderio



Titolo: La main de Dieu (La mano di Dio)
Autrice: Yasmine Char
Editore: Gallimard, Parigi
Anno di pubblicazione: 2008
Formato: cm 11x17,8 brossura
Pagine: 122
Lingua: francese

Il libro racconta che cosa abbia significato per una ragazza di quindici anni nascere e crescere in Libano, nella Beirut bombardata tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, con genitori di diversa cultura e in una famiglia dalle tradizioni islamiche, nella precarietà dei giorni.
Studentessa di un liceo francese della città, la protagonista, di padre libanese e madre francese, vive al riparo dalle pressioni dei parenti islamici grazie alla sensibilità e alla comprensione del padre. L’uomo non è capito dalla propria famiglia d’origine, che lo accusa di scelte sentimentali ardite, ovvero l’amore incondizionato e rispettoso per una donna occidentale - la quale, però, lo abbandona - e per la figlia, che lascia libera di vivere secondo i suoi istinti, anche contro i costumi locali. La ragazza, mai nominata nel testo, sembra vivere un forte smarrimento interiore, lacerata com’è dall’incontro-scontro tra due culture, e in terra mediorientale sceglie di vestirsi come un ragazzo, portare capelli corti, pantaloni militari, niente velo né condizionamenti, e di preparasi alla guerra allenandosi con gli amici.
Il disagio è acuito dalla quotidianità della guerra, che trasforma la sua esistenza in uno stato di continua allerta e fughe dal pericolo delle bombe, sino alla perdita definitiva di ogni speranza e, per assurdo, alla ricerca di quel “franco tiratore” che metta fine alla sua vita. Il peso dei giorni sembra alleggerirsi quando la ragazza scopre l’amore nell’incontro casuale con un uomo che si presenta come un corrispondente di guerra francese, e al quale si concede senza remore né timori, indifferente all’obbligo della verginità, che nella Beirut islamica segna la demarcazione netta tra ragazze rispettabili e ragazze senza onore. Nella periferia dai palazzi semidistrutti e crivellati di colpi di Beirut, la giovane trova una ragione per vivere.
Continua a frequentare il campo profughi palestinese, mentre il suo amante la addestra alla guerra, a sparare. Il tempo resta sospeso, nella consapevolezza che tutto può accadere, anche la morte, senza alcun preavviso.
Mentre i libanesi lasciano la propria terra per cercar riparo nel resto del mondo, il padre della ragazza non vuole abbandonarla, nella speranza di far tornare a sé la moglie. La protagonista, invece, non trova un motivo per restare a vivere in quei luoghi di sofferenza, tra parenti ostili che non ne comprendono la voglia di libertà, ma non può partire senza il padre; asseconda così la richiesta del compagno di uccidere per lui. Per amore si ritrova quindi coinvolta in una sparatoria da cui fugge miracolosamente illesa, per scoprire che il suo uomo non è un corrispondente di guerra, bensì quel franco tiratore padrone dei suoi giorni, colui che rendeva precarie le vite dei suoi amici e dei suoi cari. Avutolo per caso sotto il tiro di fucile, lo uccide, per poi andarsene senza lasciare traccia di sé.
Due mesi dopo la morte del padre per malattia, morirà anche l’amata nonna della giovane, altro suo modello di libertà ed emancipazione. Tempo dopo, la giovane lascerà il paese e osserverà lo svolgersi degli eventi in Libano da un collegio femminile in Svizzera, come avrebbe voluto il padre.

Valutazione critica
Yasmine Char, autrice nata in Libano da padre libanese e madre francese, e attualmente residente in Svizzera, pare ispirarsi fortemente alla propria esperienza personale per raccontare la giovanissima protagonista del libro. La ragazza, al momento della narrazione quindicenne, per ben sette anni della propria vita non conosce che la guerra, vivendo in condizioni precarie, nell’assenza di elettricità, acqua, benzina, telefono, occupando case vuote, come tutti fanno.
L’autrice costruisce l’intreccio senza curarsi di riportare gli eventi in ordine cronologico, ora in prima ora in terza persona. Del resto, non è necessaria una sequenza temporale logica per ricostruire il percorso interiore della giovane, per capire il suo disincanto, la sua disperazione. Il racconto, semplice e crudo, restituisce al lettore la realtà di un paese in guerra senza esitazioni né ombre.
Dalla narrazione si evince il duplice significato del titolo. La “mano di Dio” è, all’inizio, l’intervento divino che dona alla ragazza l’amore, attraverso l’incontro con un uomo cresciuto al di fuori del contesto di morte e precarietà. In seguito, “la mano di Dio” diventa la mano della ragazza stessa, quando, dopo il massacro di alcuni rifugiati palestinesi suoi amici, la giovane perde ogni fede e si sostituisce a quel Dio assente, uccidendo senza ripensamenti né rimorsi il suo amore, responsabile di tanto sangue versato.
Al termine di questa asciutta ma incalzante narrazione, la ragazza, ormai adulta e lontana da Beirut, spiega così il motivo di quel “viso da assassina” che tanto le pesa addosso, come affermato in apertura del libro. Un volto scavato dall’amarezza e dalla disillusione.

Traduzione della quarta di copertina
Si parla di una ragazzina di quindici anni che corre lungo una linea di demarcazione. Si parla del Libano, paese in guerra da così tanto tempo che a volte ci si dimentica che la guerra sia ancora là. E, infine, si parla di amore in un contesto di guerra. L’amore della ragazzina, puro come un diamante, per il padre, per l’amante, per la patria. Grande assente è la madre, che non sa nulla di questo amore. Se n’è andata senza lasciare traccia.
La ragazzina cresce del tutto smarrita in quei luoghi, divisa tra due culture, travolta dalla violenza.
Così, corre.
È la storia di una ragazza dal vestito verde che volteggia tra le rovine, che si butta tra le braccia di uno straniero, che maneggia armi come respira. È la storia di un’adolescente, che cade ma si rialza sempre.