giovedì 23 giugno 2011

Parle-leur de batailles, de rois et d'éléphants

di Francesca Desiderio



Titolo: Parle-leur de batailles, de rois et d’éléphants (Storie di battaglie, re, elefanti)
Autore: Mathias Énard
Editore: Actes Sud, Arles
Anno di pubblicazione: 2010
Formato: cm 11,5x21,7 brossura
Pagine: 154
Lingua: francese

Nel 1506, Bayezid II, sultano della nuova capitale dell’Impero ottomano Istanbul, chiama a sé Michelangelo affinché progetti un ponte sul Corno d’Oro.
In dissidio costante con Giulio II, Michelangelo accetta l’invito del grande rivale del papa e si allontana dall’Italia in cerca di rivalsa e di denari, più per indispettire il pontefice che per reale interesse ad assecondare la volontà del potente sultano.
Accolto con tutti gli onori nella vecchia Costantinopoli, l’artista viene ricevuto da una delegazione importante, composta anche da genovesi, fiorentini e veneziani stabilitisi a Istanbul; durante il soggiorno lo accompagna il poeta turco Mesihi, mentre il gran vizir Ali Pacha media tra i talenti dell’artista e i desideri del sultano.
Michelangelo va alla scoperta della città facendo suoi i colori, le voci delle strade piene di vita, la vivacità dei locali dove si intrattiene con il poeta turco, assiste a danze andaluse e ne apprezza le misteriose ballerine. Tra un disegno e l’altro - stanche esercitazioni più che frutti dell’ispirazione - Michelangelo si fa trascinare dai piaceri della carne, ammaliato da un'affascinante ballerina andalusa, sotto lo sguardo geloso di Mesihi, sempre più attratto dall’artista italiano.
L’ispirazione tarda a venire e l’artista, sollecitato dal vizir, realizza infine un progetto lineare ma possente. Alla consegna del disegno viene omaggiato dal sovrano con proprietà terriere in Bosnia e senza ricevere un soldo, con sua somma delusione. L’indifferenza di Giulio II alla sua assenza da Roma acuisce la sua rabbia e nel carteggio con il fratello Bonarroto e Giuliano da Sangallo si riconosce squattrinato in patria e all’estero, e deluso dai potenti.
Le cospirazioni contro il gran vizir e un attentato alla sua vita, per impedire all’infedele di costruire un’opera in terra islamica; il sentirsi imprigionato in una gabbia dorata; il pensiero dei pericolosi rivali Bramante e Raffaello in patria inducono infine Michelangelo a lasciare Istanbul, nonostante i lavori per la costruzione del ponte siano appena stati avviati.
Ma il 14 settembre 1509 un terremoto devasta Istanbul. Con la morte di Ali Pacha, due anni dopo, e di Bayezid II nel 1511, il progetto del ponte di Michelangelo passerà all’oblio, e ne resterà solo un disegno.

Valutazione critica
Énard romanza una vicenda storica ispirato dai recenti ritrovamenti a Istanbul di documenti che attestano il soggiorno di Michelangelo nella città ottomana e il suo progetto di un ponte sul Corno d’Oro.
Quanto ci sia di autentico in questa narrazione di poco più di 150 pagine non è dato sapere. A dare credibilità al racconto sono senz’altro le lettere inviate da Michelangelo ai familiari in Italia – che Énard stesso traduce dall’italiano -, le tante figure storiche che si avvicendano nel libro (su tutte il poeta turco Mesihi) e la descrizione della misteriosa e potente Istanbul.
L’autore mette al centro i problemi finanziari dell’artista, facendone il motore delle sue scelte professionali, i rapporti umani che deve aver instaurato e che devono avergli reso più piacevole il soggiorno nella temutissima capitale ottomana. Énard conferisce così al mitico artista contorni umani, attribuendogli istinti, sentimenti contrastanti e poco nobili, bisogni materiali, senza mai sminuire il mito.
La narrazione è scorrevole e veloce, la scrittura sciolta ma attenta e ricercata, così come i brevi dialoghi. La storia è suddivisa in tanti piccoli capitoli, come fossero piccoli quadri di singoli eventi, tessere di un mosaico che si compone via via che si legge, e il racconto è intervallato dalle lettere di Michelangelo ai familiari, che conferiscono autenticità agli eventi narrati.
Unico neo di questo piccolo capolavoro di Énard è la conclusione rapida e precipitosa, che tuttavia non ha impedito all’autore di vincere in patria il Prix Goncourt des Lycéens 2010.

Traduzione della quarta di copertina
Quando Michelangelo sbarca a Costantinopoli, il 13 maggio 1506, abbandonando i lavori di edificazione della tomba del Papa a Roma, sa di sfidare la potenza e la collera di Giulio II, papa guerriero e pessimo pagatore. Ma come ignorare l’invito del sultano Bayezid II, che gli propone, dopo aver rifiutato i progetti di Leonardo da Vinci, di progettare un ponte sul Corno d’Oro?
Questo romanzo ricco di cenni storici comincia così, appropriandosi di una vicenda realmente accaduta per svelare i misteri di questo viaggio.
Destabilizzante come l’incontro di un uomo del Rinascimento con le bellezze del mondo ottomano, preciso e cesellato come un’opera di oreficeria, questo ritratto dell’artista al lavoro è anche un’affascinante riflessione sull’atto della creazione e sull’emblematicità di un gesto verso l’altra sponda della civiltà che resta incompiuto.
Infatti, attraverso il resoconto di quelle settimane dimenticate dalla Storia, Mathias Énard traccia i contorni di una geografia politica che, a distanza di cinque secoli, soffre ancora di incertezze.

Nato nel 1972, Mathias Enard ha studiato il persiano e l’arabo. Vive a Barcellona e soggiorna per lunghi periodi in Medio Oriente. Per Actes Sud ha pubblicato tre romanzi: La Perfection du tir (2003, Prix des cinq continents de la francophonie; Babel n° 903), Remonter l’Orénoque (2005) e Zone (2008; Babel n° 1020), premiato con il Prix Décembre 2008 e il Prix du Livre Inter 2009.

giovedì 2 giugno 2011

Belle Époque. Riflessioni sull’arte tra il 1880 e il 1915

di Francesca Desiderio

Sul finire dell’Ottocento, quando l’Europa vive i primi traguardi dell’era industriale in termini di benessere materiale, l’arte applicata si interroga sulla propria missione e funzione pratica. L’epoca è segnata da un crescente imbruttimento delle manifatture, del paesaggio urbano e dalla perdita di senso estetico, nell’appiattimento minaccioso della produzione in serie. Accanto alle correnti artistiche di accademia, prodotte dall’élite culturale, nasce quindi un nuovo approccio alle arti e all’artigianato, meno nobile ma più a uso e consumo della società, per recuperare le belle forme e restituire prestigio anche ai mestieri artigianali dell’età preindustriale. È l’origine del Modernismo.
In principio, verso gli anni Ottanta, la prima avanguardia modernista trae grande ispirazione dal popolo. L’interesse per le condizioni misere delle classi lavoratrici induce a guardare a epoche del passato, quando i mestieri più umili e l’artigianato costituivano l’anima della società. Già il Naturalismo e il Verismo avevano guardato al popolo dei lavoratori, contadini e operai. Si diffondono sempre più idee socialiste, apprezzate anche dalle élite artistiche – le stesse che, contrarie al senso del pratico e del concreto espresso dal Positivismo materialista, stavano dando i natali al Decadentismo e al Simbolismo.
Fucina dei primi prodotti artistici di forte matrice ideologica è l’Inghilterra, scenario della Rivoluzione industriale e delle prime trasformazioni sociali e di costume. Nel 1884, sulla scia dell’insegnamento di Ruskin e dei Pre-Raffaelliti, fautori di un revival neomedioevale e romantico, William Morris caldeggia il recupero dei valori del Medioevo contadino, modello di una società più pura, per ispirare così la produzione di arti applicate alla quotidianità; bello e utile devono fondersi, anche nell’impiego di materiali inconsueti nell’arte (ceramica, vetro, ferro, cemento). Morris dà quindi vita alla Arts and Crafts Exhibition Society, con l’obiettivo di produrre un artigianato dal gusto artistico e restituire ai costumi una morale.
Il connubio tra senso estetico e utilità sociale sembra essere raggiunto con l’Art Nouveau, arte non accademica che unisce tecnologie e ornamenti artigianali nell’arredamento, nell’architettura e nell’oggettistica. Il nuovo stile si diffonde in tutta Europa con il nome di Modern Style (Inghilterra), Art Nouveau (Francia), Modernismo (Spagna), Liberty (Italia, dal nome del commerciante inglese di mobili che aveva diffuso per primo un nuovo gusto), Jugendstil (Germania), Sezessionstil (Austria), per assumere in ciascun paese connotazioni proprie. Il movimento si caratterizza per la determinante propensione al decorativismo, basato su elementi floreali, curvilinei, fitomorfi, di ispirazione orientale. Geometrie sinuose impreziosiscono la disparata oggettistica di uso quotidiano realizzata in materiali più diversi.



Manifesto pubblicitario di Alphonse Mucha

Contemporaneamente all’Art Nouveau, l’arte “colta”, più intellettuale e accademica, appare in contrasto con tanta – se pur relativa – democratizzazione e sviluppa un atteggiamento parallelo, inquieto, privo di ottimismo e alla ricerca di valori nascosti, non evidenti nella quotidianità, più alti: è questa l’essenza del Decadentismo e del Simbolismo. Conclusesi le parabole realista e impressionista, l’artista d’élite va ora alla ricerca di corrispondenze tra suoni, colori, forme e sensazioni, una ricerca all’insegna della soggettività, che lascia risultati in opere che ritraggono l’illusione o i significati.
Nei primi anni del Novecento, l’Art Nouveau fa i conti con una realtà inattesa: l’arte concepita per il popolo si scopre destinata alla sola borghesia. Gli oggetti non sono a buon mercato, data la fattura preziosa, e sono pochi coloro che possono accedervi. Inoltre, ha sovraccaricato l’artigianato di ornamenti e si è appesantita, quando i modelli estetici della società moderna si ispirano al dinamismo, alla velocità. L’anelito alla semplificazione delle forme caratterizza così le avanguardie di inizio Novecento: in contrasto tanto con i modernisti quanto con la tradizione, si cerca l’astrazione, l’enfasi delle forme e dei colori a prescindere dai contenuti. Nascono il Fauvismo (1905), il Cubismo (1907), il Futurismo (1909), sino al limite estremo dell’Astrattismo (1910).
È in quest’epoca per tutti nota come Belle Époque che si crea così la rottura definitiva tra pubblico e arte. Il pubblico non riesce più a seguire gli intellettualismi degli artisti. L’unica avanguardia in grado di essere capita è il cinema, che sarà sviluppato come intrattenimento di massa e mezzo di propaganda negli anni a venire.
Con la prima guerra mondiale si sopisce quella straordinaria euforia creativa che nel passaggio di secolo ha segnato tutte le arti, dalla pittura alla musica, dalla letteratura all’architettura, quale espressione della volontà di rinnovamento all’insegna di distacco da forme e contenuti della tradizione. La Belle Époque sarebbe passata alla Storia come uno dei momenti di massima espansione artistica e culturale, oltre che tecnologica, economica e sociale. Nel bene o nel male, mai più, nel corso del Novecento, si sarebbe assistito a tanto fermento.


Riferimenti bibliografici utili:
Fahr-Becker G., Art Nouveau, Gribaudo/Könemann, Milano 2004
Hobsbawm Eric J., L’età degli imperi. 1875-1914, Laterza editore, Bari 2000
Storia dell’arte italiana, diretta da Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Electa/Mondadori, Milano 1992, 4 voll.; vol. IV.

Boldini e la Belle Époque. Villa Olmo, Como (26 marzo-24 luglio 2011)

di Francesca Desiderio



Giovanni Boldini, Camicetta di voile (1906)

La Belle Époque, ripensata con nostalgia dopo il 1919 per il benessere, la stabilità politica e gli sviluppi economico-scientifici, furono “bei tempi” di pace sociale durati circa quarant’anni. Grazie ai progressi scientifici si sconfiggeva la mortalità infantile, si debellavano malattie, si semplificavano le condizioni di vita, si viaggiava più facilmente, si usufruiva sempre più di spettacoli teatrali e concerti, diventarono di gran moda esposizioni universali e ritrovi nei caffè, manifestazioni sportive o ricreative all’aperto, nonostante, dietro al velo dorato della diffusa mondanità, si celassero forti differenze sociali. I soli fruitori di tanta abbondanza erano i ceti borghesi in ascesa economica e in cerca di affermazione.
Il pittore Giovanni Boldini e la Belle Époque finirono con il convergere. Boldini crebbe in pieno spirito dei tempi, tanto da diventarne il pittore ufficiale. Avvicinatosi in origine ai Macchiaioli toscani, lasciò l’Italia per cercare nuova patria a Parigi, fulcro della modernità di fine Ottocento. Parigi viveva all’epoca una rinascita urbanistica – grazie alla ristrutturazione urbana di Haussmann e al proliferare di caffè, teatri, sale concerto, luoghi di aggregazione della società borghese emergente. Parigi attraeva artisti da tutta Europa e rifletteva lo spirito di una società vogliosa di mondanità.
Boldini incarnò lo spirito dei “bei tempi” nella sete di affermazione sociale, quindi artistica: penalizzato da un aspetto poco aitante, e nato in una famiglia povera del ferrarese, cercò di farsi strada nel bel mondo facendo proprio quello stile di vita modaiolo, disinibito e arrivista che impregnava gli ambienti della borghesia, dai salotti ai caffè.
Grazie al legame con il mercante d’arte Goupil, Boldini conobbe personaggi illustri, non solo artisti con cui condividere esperienze ma anche conti, marchesi e, soprattutto, dame dell’alta società. Di queste ultime colse la volontà di offrire una immagine di sé slegata dai vecchi stereotipi: Boldini sapeva ritrarre il gesto della donna, la flessuosità del suo corpo, lo sguardo ammaliatore e ammiccante, cogliendo la voglia di autodeterminazione e di emancipazione. La donna di fine Ottocento si disfa dei bustini e delle stecche di balena, piace a se stessa nella sua spontaneità seducente e si lascia ritrarre in pose ambigue, dai vaghi richiami erotici. Il mito della femme fatale è reso da Boldini alla perfezione, tanto che non si contavano le dame che desideravano un ritratto da lui: la marchesa Luisa Casati, la modella amante Berthe, Emiliana Concha de Ossa, Madame de Joss, Mademoiselle de Nemidoff, Rita Philip Lydig, solo per citarne alcune.
Boldini ritrasse anche ambienti interni ed esterni, comunque urbani, e artisti in pose spontanee quasi fossero fotografie istantanee.
I tratti distintivi della pittura di Boldini si formarono a inizio Novecento, quando cominciò a semplificare il dettaglio – l’abito, lo sfondo, gli oggetti – per valorizzare il viso e riprodurre con veloci e guizzanti pennellate, le cosiddette “sciabolate”, voile, piume, scialli, capelli. Il suo tocco divenne inconfondibile. In pieno spirito modernista, si identificò alla perfezione con l’anelito alla velocità e al dinamismo. Riprendendo la lezione della fotografia, Boldini si concentrò infatti sul movimento, sulla traiettoria del gesto, tanto che le sue figure appaiono tutto fuorché statiche. La scelta del gessetto per molti disegni e ritratti sembra aver facilitato il passaggio verso il movimento e lo sfumato.
Come sintesi di tale riflessione, valgano su tutti due dipinti magnetici: La camicetta di voile (1906) e Busto di giovane sdraiata (ca. 1912).
A impreziosire la mostra nell’aristocratica Villa Olmo sono anche le sale di apertura e chiusura dell’esposizione, dedicate rispettivamente a opere di De Nittis – nei cui personaggi in esterni si scorge già una semplificazione della pennellata e l’importanza degli ambienti urbani di fine secolo – di Zandomeneghi e di Corcos, artisti a loro volta influenzati dall’atmosfera artistica e sociale della Parigi fin de siècle.