di Francesca Desiderio
Dalle alte quote dell’aereo in volo il panorama abbraccia una distesa di appezzamenti sabbiosi, solcati da strade lunghissime, come linee rette. I vapori che esala il deserto velano l’aria, la ispessiscono visibilmente. Una volta atterrati ad Amman, la luce, stancante, ammalia; la calura intontisce e incanta, favorita dalla litania del muezzin, che richiama ovunque alle preghiere quotidiane. “Welcome in Jordan!”, qualcuno ti dirà.
L’architettura urbana di Amman “la bianca” è sregolata e grezza: palazzi monoformi, parallelepipedi o cubi in pietra bianco-grigia, talvolta parzialmente crollati o solo non completati, come fossero caduti sotto i bombardamenti. Alta, sopra le case, sventola una bandiera nazionale lunga circa quaranta metri, collocata entro le mura del palazzo reale. Strade trafficate, disordinate e brulicanti di vite mediorientali indaffarate nei commerci.
Figure minute di ragazze sono avvolte con sensualità in magliette coprenti e aderenti, e indossano jeans e scarpe all star secondo la moda occidentale; signore più mature, o forse solo sposate, si muovono sicure sotto lunghe tuniche, ma altrettanto sensuali, velo in testa, testa alta. Lo sguardo maschile è discreto, nonostante i miei capelli e le mie braccia siano scoperti. Un negoziante mi offre gratuitamente una bottiglia di acqua; un tassista mi chiede meno del previsto per ricondurmi in albergo: l’accoglienza giordana è di una disponibilità inaspettata, semplice e garbata.
La città bassa è il cuore pulsante di Amman: il fulcro è la moschea al-Hussein bin-Talal, dall’ingresso vietato agli “infedeli” e il minareto aguzzo; il teatro romano vicino, centro dell’antica Philadelphia, è pressoché intatto, contrariamente alle vestigia del Tempio di Ercole, della Basilica bizantina e del Palazzo degli Omayyadi sulla cittadella. Da questa piccola altura si può cogliere Amman “la bianca” in tutta la sua estensione, adagiata su rilievi polverosi e arsi da un generoso sole.
Fuori dal passato, trovo maggior agio nei suoni e nelle voci di un centro trafficatissimo, tra auto e passanti, attraversato da una strada principale su cui si affacciano in stretta successione negozi di abbigliamento, calzature e biancheria, che espongono sfacciatamente la mercanzia su metà dei marciapiedi. In una via defilata, al lato della moschea, si addensano persone; le seguo e mi inoltro in un mercato colorato di frutta e verdura: tante piramidi di ogni bene prodotto dalla terra, banchi generosi e traboccanti, e venditori che chiamano, urlano, maneggiano le merci con velocità e destrezza.
Lontano dal centro, lungo reticolati stradali recenti ma pur sempre polverosi e percorsi da autisti audaci, si costruiscono quartieri nuovi, ville alla moda ritenute di gran lusso dagli abitanti della città. Di sera, anche le luci della nuova Amman offrono la vista di una città moderna, soprattutto nelle architetture degli hotel di lusso frequentati da turisti stranieri o grandi petrolieri. Lo scarto con l’assenza di colore e la fatiscenza diurna è però eccessivo; la ricchezza è solo un’illusione.
La quotidianità poco idilliaca, tuttavia, non spegne la spiritualità di questo paese e della sua gente, spiritualità che si avverte come un’esigenza, si respira per le strade, si percepisce nei gesti e negli sguardi, fa accettare tutto con il sorriso e senza ansie, e non si lega ad alcuna religione particolare. “Inshallah”, “se Dio vuole”, è la risposta agli inviti, alle proposte, e racchiude in sé tutta la pazienza con cui si accetta il trascorrere del tempo, il susseguirsi eterno di vita e morte. A pochi chilometri da Amman, sul confine con Israele, sorgono luoghi di biblica memoria, si contemplano orizzonti sul lago di Tiberiade, sul Giordano, dal Monte Nebo. In questa atmosfera di calma pacifica, i confini con Siria e Israele a un passo dai rilievi giordani si direbbero facilmente valicabili, e non si avverte la tensione militare dell’intera area geografica.
Lungo le strade che attraversano la Giordania da nord a sud, la foschia dei caldi vapori desertici vela un orizzonte di rilievi corrosi dall’arsura, canyon e roccia pronta a sgretolarsi in ciottoli. Sulle colline attorno ai centri abitati e alle città minori si respirano profumi mediterranei di ulivi, ma la Giordania è in larga parte terra di sabbie. A sud, in particolare, dove la luce ha un’intensità capace di ferire gli occhi, la sabbia è ruggine e il tempo è assente. Gli antichi graffiti rupestri nel deserto dello Wadi Rum sono attuali quanto me. A distanza, le guide locali in tunica bianca mi aspettano annoiate, con le braccia conserte, appoggiate alle gobbe dei loro cammelli.
Tutto prelude a Petra, la storica capitale dei Nabatei, in una valle arida di Giordania al centro di antiche vie commerciali tra il Mediterraneo e l’Iran, tra l’Arabia e la Siria. Sono resti rocciosi di una grande città scavata nei rilievi di arenaria spaccatisi per effetto di terremoti, tanto da formare gole profonde, spesso strette e labirintiche, verso il confine con Israele. È il volto più noto della Giordania, per quanto il presente di questo paese nulla condivida con questo passato.
Per accedere alla città nabatea, capitale del regno sorto intorno al IV secolo a.C., i suoi prudenti fondatori vollero che il visitatore scendesse tra pareti di roccia, il Siq, passaggio stretto che ne proteggeva i tesori. Al termine della gola, quando la curiosità è al suo culmine, una luce accecante fende improvvisamente l’ombra della gola e svela il primo “tesoro” di pietra: il Khaznat (Tesoro), la cui facciata lascia pensare a un tempio o a un palazzo reale. È la tomba di un re nabateo del I secolo d.C. scolpita nella roccia: è una celebrazione dell’arte della scultura, nell’ispirazione egizio-greco-romana della sua architettura.
Il passaggio attraverso un’altra breve gola consente di penetrare nel cuore dell’antica città, gelosamente custodita in una vallata. Si susseguono architetture di un vecchio centro urbano, palazzi e tombe ricavati dalle montagne dove oggi trovano rifugio venditori ambulanti o nomadi. Sono facciate imponenti, di tombe eminenti. La luce si rifrange sulla roccia esaltandone la grandiosità, accendendone i rossi dell’arenaria.
Alla sinistra del percorso polveroso, ai piedi del monte Nejr, mi sorprendono i resti di un grande anfiteatro romano del II secolo d.C., che ancora testimonia la mistione tra tutte le culture che hanno attraversato questa regione di scambi tra Oriente e Occidente.
Cave ora scavate dall’uomo, ora naturali prodotte dall’azione di vento e acqua, svelano colori ipnotici; le rocce multistrato vanno dall’ocra al blu, e al variare della luce cambiano tonalità, come in un caleidoscopio creato ad arte.
Giovani giordani offrono ai turisti un passaggio sui loro animali, spesso maltrattandoli per incalzarli alla corsa polverosa tra rovine che non degnano più di uno sguardo.
Poco più avanti, sulla destra, una scala nella roccia conduce alla Tomba dell’Urna, la prima delle tre Tombe Reali, edificio appartato, adibito a chiesa nel V secolo d.C., con uno spiazzo-sagrato che si affaccia, dall’alto, sull’intero percorso che dalla necropoli porta al cuore della città.
Su una piccola collina poco oltre, restano rovine di una chiesa bizantine: tracce di colonne e uno splendido pavimento mosaicato. Una composizione quasi perfetta, seppur sbiadita dal tempo, sopravvissuta alla luce tanto intensa e alle sferzate sabbiose del deserto.
Raggiungo il Foro, con i suoi templi e il colonnato che lo delinea, a meglio definire spazi esposti alla violenza distruttiva del tempo. Al termine della strada centrale, delimitano il Foro le vestigia di un massiccio portone in pietra. Lo supero e mi volto per dare ancora uno sguardo alla città scavata nella roccia, in lontananza.
La strada torna a inerpicarsi sulla montagna, passando per strette gole. Affronto mille gradini come un pellegrino penitente verso l’ultimo luogo sacro della valle, l’altopiano dove finisce la città: il Deir (Monastero). Così è chiamato quel che in realtà fu un tempio. Facciata imponente, nuovamente ricavata dalla roccia, nel medesimo stile greco-romano che caratterizza il Tesoro. La facciata guarda a Ovest, in direzione di Israele, a Sud si scorge la cima su cui è posta la tomba di Aronne, a Nord la Piccola Petra, caravanserraglio costruito ancora nella roccia. Gole e rocce sembrano cumuli di sabbia bagnata, smussate e arrotondate dal tempo.
In questa gola dove la luce gioca coi colori via via che il sole si alza o tramonta, si perdono le coordinate del luogo, e si respirano sabbia e aria sacra di una dimensione remota, persa nel tempo.