di Francesca Desiderio
In Kenya sopravvivono ancora tribù dalle forti tradizioni, abituate a vivere in piccole comunità, in condizioni semi-primitive eppure orgogliose della propria cultura, al riparo dai condizionamenti della civiltà occidentale.
Nel cuore del Masai Mara, la riserva naturale al confine con la Tanzania, vive il popolo che le dà il nome, i Masai, disseminati in piccoli villaggi nelle regioni più isolate e pericolose del Paese. Per difendersi dai leoni e dalle fiere più minacciose, i Masai costruiscono i loro villaggi circolari cingendoli di una fitta staccionata di tronchi e rami. Le case sono disposte attorno a uno spiazzo di terra ed escrementi di bovini. Case di fango essiccato e paglia sopra i tetti, al loro interno una o due stanzine buie dove ristagna il fumo prodotto dal fuoco, e donne sedute in quel buio ad accudire bambini. Vestono acconciandosi addosso foulard rossi o arancioni, a righe o a quadri, per spaventare gli animali selvatici, e indossano sandali ricavati dagli pneumatici abbandonati, ritagliati e cuciti ad arte. Portano collane, collari, bracciali, orecchini e piercing alle orecchie per allargare a dismisura i fori che si praticano.
E’ una fortuna aver incontrato un giovane, come quasi tutti, capace di parlare inglese e illustrarci il loro stile di vita. Il governo ha costruito scuole per incoraggiare l’istruzione; già oggi i Masai vivono a contatto con i kenioti “moderni”, lavorando per il turismo e facendosi portavoce di una cultura diversa sebbene autoctona, sperando in mance da investire nella propria piccola comunità.
Allevano mucche, di cui bevono il latte e il sangue, e ne utilizzano le pelli. Si tramandano una forte divisione dei ruoli: alle donne spetta la cura di casa e figli, la raccolta dell’acqua dalle fonti e di radici di cui cibarsi; agli uomini spetta la guardia al villaggio, la dimostrazione di coraggio all’incontro con un leone minaccioso, quindi la ricompensa del matrimonio in caso di uccisione del grosso felino. Questo spiega l’attributo di “guerrieri” con cui sono conosciuti questi giovani uomini, esili ed alti, che si aggirano cingendo sempre bastoni di legno, da bravi pastori ed esperti combattenti.
I matrimoni sono combinati o comunque decisi dall’uomo, che può scegliere la poligamia e introdurre nella propria comunità una donna di una tribù vicina. Serve però un buon numero di mucche per barattare la prescelta. Tante più mucche e figli si possiedono, tanto più si sale nella scala sociale. Per dimostrare la propria prestanza fisica gli uomini si esercitano nel salto da fermi e accolgono i visitatori con una danza fatta di salti, urla e versi che ritmano i movimenti; la donna è invece accolta tra le altre con un canto e una danza composta di pochi passi e battiti di mano.
I Masai producono oggetti con perline e fili di metallo, incidono il legno e vendono i loro prodotti ai turisti per acquistare abiti e materiale per creare nuovi manufatti. L’ammirazione per un popolo capace di trovare mezzi di sussistenza in modo autonomo si smorza quando mi spiegano le pratiche di “passaggio” alla vita adulta: circoncisione per il giovane diciottenne, con pubblico disprezzo, disonore e allontanamento dalla comunità in caso di pianto, e infibulazione per le bambine, con conseguente possibilità di essere prese in moglie… Il governo keniota sta tentando di sensibilizzare i Masai affinché abbandonino questa barbara tradizione, ma mi spiegano che se le donne non “maturano” in questo modo non saranno mai prese in moglie. Labile confine tra tradizione e ignoranza…
Mi mostrano la pratica di accensione del fuoco, strofinando due legnetti; mi parlano della loro divinità, Engai, che governa gli eventi naturali. Non offrono cibo o bevande; hanno così poco per sé, data la stagione secca in cui li visito, da non poterne condividere.
Questi sono i Masai, isolati dal resto del mondo eppure, all’occorrenza, integrati e consapevoli della propria diversità, ma mai per questo, ovunque ne abbia rincontrati in Kenya – nei paesi o nei villaggi periferici – a disagio tra gli altri.