Nella testa la melodia suonata dal duduk accende immagini di Bukhara, la città del secolo scorso, dal colore della sabbia con le cupole azzurre.
Sul profilo dell’orizzonte, al tramonto, un bambino vestito di poco, un cellulare in tasca, gioca a pallone con amici improvvisando un campo da calcio negli spazi delimitati dalle mura di antichi bazar e madrase.
Lungo una strada costeggiata di edifici che sembrano macerie, una ragazza siede sui gradini di accesso a un negozio di tè e spezie del XV secolo, con in braccio un bambino, e sorride, con i suoi occhi orientali, placida e cortese al mio passaggio.
Un omaccione si alza da uno sgabello, interrompendo le chiacchiere con un vicino, per rientrare nel gabbiotto da cui serve spezie e frutta secca ai clienti, riempiendone cartocci che poi mette in buste di plastica nera.
All’interno del bazar, al suono di melodie mediorientali, un ragazzo incide con martello e scalpello un piatto di metallo con tortuosi motivi islamici, e donne corpulente in lunghe tuniche litigano tra loro mentre mi gridano di acquistare solo i loro ricami Suzani.
Una bambina riceve istruzioni dalla madre che la spinge verso un gruppo di turisti, un’altra aiuta la propria a sistemare i meloni in vendita direttamente sulla strada.
Due donne sedute al tavolo di un ristoro locale, lungo una strada trafficata di furgoncini Daewoo e biciclette, immergono le dita nel piatto e mangiano il plov, riso e carne.
Un gruppo di ragazzi chiacchiera appena fuori da una madrasa dove si insegna il Corano, e squadra con occhi ostili il turista che, ignaro del divieto, minaccia di entrarvi.
In una madrasa di affari e commerci un uomo siede tra due botteghe a suonare uno straziante strumento a corde, un violino dal suadente lamento.
Una donna alta e grossa dall’intera dentatura dorata mi sorride orgogliosa, gambe non depilate, calzini alle caviglie e piedi nelle ciabatte, e tanti ferri in mano a intrecciare una scarpa di lana.
Dopo il tramonto si spengono tutte le luci, le strade impolverate del quartiere di case di argilla e fango sono abbandonate, restano buie, un labirinto percorribile solo alla luce di una torcia, facendo attenzione a pozzi e buche.
Nella città dove si cammina in ciabatte e i piedi sono impolverati, dove gli sguardi sono pacifici, profondi e di una cordialità sincera, le ragazze non si accompagnano agli uomini, non passeggiano gruppi di giovani. Uomo e donna non si incontrano se non c’è tra loro un matrimonio o la sua promessa. Non si parlano neanche. Tanti bambini evitano la scuola e assistono i genitori nei commerci. Non c’è cura del proprio corpo, né igiene.
Tutto quel colore, quella vita animata, quella frutta generosa accatastata ai bordi delle strade è un’abbondanza per tutti. Le strade trasudano energia, la gente è giovane. La vita è rimasta al secolo scorso, all’ombra delle moschee rivestite di ceramiche di cobalto, lascito di antichi saperi dispersi, di antichi regni costruiti sulla forza e sulla scienza. Al tramonto il sole fa brillare il loro smalto, mentre un carretto passa, tirato da un bambino.